Regia di Mario Monicelli vedi scheda film
Nel 1936, Mario Monicelli, allora venticinquenne, partecipò come aiuto-regista di Augusto Genina, alla realizzazione in Libia del film Squadrone bianco, melodramma coloniale generosamente finanziato dal regime come film di propaganda sulla missione africana dell’Italia fascista. Settant’anni dopo, il regista viareggino, classe 1915, torna nella terra di Gheddafi (anche se in realtà quella sullo schermo è la Tunisia) con questo suo ultimo Le rose del deserto, tratto dal Deserto della Libia di Mario Tobino – da cui Dino Risi aveva ricavato il suo Scemo di guerra – e dal brano Il soldato Sanna del libro di Giancarlo Fusco, Guerra d’Albania. Film fortemente voluto dal grande vecchio del cinema italiano, girato tra grandi difficoltà produttive e alcune piccole disavventure di lavorazione, che probabilmente hanno impedito la realizzazione di scene spettacolari e di massa. Anche se non si ha affatto – e qui c’è tutto il mestiere del regista e dei suoi collaboratori – l’impressione del film povero, dove ci si arrangia di qua e di là.
Monicelli ha fatto di necessità virtù. Forte dell’idea che il cinema è un medium fondato sulla sintesi, il grande regista ha realizzato un film asciutto, privo di arzigogoli narrativi, di effetti melodrammatici, oltre che di qualsivoglia effetto cartolinesco. Del resto, più che un film di guerra o contro la guerra, Le rose del deserto è il ritratto di una umanità variegata e disadattata, le cui miserie vengono esasperate dalla situazione bellica.
Ecco la trama. Anni 1940-41. Conflitto italo-inglese. Ci troviamo nell’ospedale da campo della divisione Minotauro del Regio esercito, comandato dal maggiore Strucchi (Alessandro Haber), appassionato lettore, che scrive in continuazione alla moglie, servendosi per ottemperare ai suoi doveri militari, della buona volontà del sergente Barzottin (Fulvio Falzarano), su cui tutti scaricano i loro problemi, e del tenente Salvi (Giorgio Pasotti), partito volontario per puro gusto dell’esplorazione, pensando di potersi comportare come un turista in viaggio, con tanto di Leica a tracolla. Figura di spicco dell’accampamento è il padre domenicano Simeone (uno straordinario Michele Placido), che funge da insegnante per i bambini dell’oasi e che finirà per diventare il leader del reparto.
Tutti i soldati pensano che la guerra sia destinata a concludersi nel giro di poche settimane. Infatti, li vediamo per tutta la prima parte del film, giocare a dama, ascoltare la radio, fare foto, andare a cena da un capo tribù locale, contemplare le stelle. Poi la realtà prende una piega ben diversa. La guerra si trascina. Anziché avanzare, il Regio esercito retrocede. In suo aiuto arriva l’arrogante Afrika Korps, mentre i militari devono sopportare l’inettitudine dei superiori (come il generale Pederzoli, caricatura di ogni retorica bellicista, interpretato perfettamente dal critico cinematografico Tatti Sanguineti) e la cialtroneria con cui è stata organizzata la missione (si pensi ai doni natalizi destinati agli alpini di stanza in Albania e mandati in Libia)...
Più che sulla guerra, come si diceva prima, questo è un film sul popolo, che, con i suoi dialetti, la sua ignoranza, la sua mediocrità, ma anche il coraggio improvviso, la saggezza, la generosità, torna ad essere protagonista nel cinema italiano. E questo proprio ad opera di chi, come Monicelli, meglio lo ha messo in scena con film come La grande guerra e L’armata Brancaleone, cui per certi versi Le rose del deserto somiglia, soprattutto per quanto riguarda l’impianto narrativo.
Un popolo narrato con una punta di rimpianto per come era prima dell’avvento della modernità, in un gran film amaro, antiistituzionale e politicamente scorretto.
Vito Santoro
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