Regia di Mario Monicelli vedi scheda film
Novant’anni, sessantacinque film, ottantacinque sceneggiature, tre nominations all’Oscar (mai vinto però) e l’amore consolidato per il cinema, fanno di Mario Monicelli uno dei maestri del cinema italiano, ormai una “razza in estinzione”. A dimostrare ancora una volta la sua sapienza, che si avvale della migliore letteratura, della migliore poesia (questa volta Leopardi) e di un linguaggio che è praticamente diventato un marchio di garanzia, Monicelli ci presenta Le rose del deserto, che con ironia, cinismo, inquietudine racconta l’attualità: dalla pace alla guerra, da dio alla possibilità che questi non c’entri con le cose del mondo. Liberamente ispirato al romanzo di Tobino “Il deserto della Libia” e a “Guerra di Albania” di Giancarlo Fusco, il film del maestro attinge a quell’archivio storico della commedia all’italiana, da lui stesso riempita di opere esemplari (da La grande guerra ad Amici miei).
Le rose del deserto è ambientato nell’estate del 1940, quando le truppe italiane sono in Libia. Il terzo reparto della sezione Sanità si accampa in un’oasi sperduta del deserto, nella convinzione che tale soggiorno sarà brevissimo. Fra i commilitoni c’è anche un frate fra i soldati (Michele Placido in un’interpretazione altissima), un uomo che aiuta la popolazione locale a sopravvivere sia alla vita difficile, che alla guerra. Per tutti il soggiorno in Libia appare più come una missione umanitaria che una guerra. In poco tempo però il conflitto bellico si avvicina in modo impressionante e il campo viene preso d’assalto tanto da soldati in fuga che da feriti. E la guerra prende davvero il sopravvento.
Con il suo personalissimo modo di raccontare, che unisce la tragedia e la commedia, Mario Monicelli si avvale di bravissimi e collaudatissimi attori, oltre a Placido, l’intensa interpretazione di Alessandro Haber del Maggiore, una sorte di stralunato poeta in mezzo alla barbarie della guerra; ma anche del sorprendente Giorgio Pasotti, che per la prima volta convince nel ruolo del tenente tutto preso dalle sue pulsioni carnali, sempre mitigate dal zelante lavoro sul fronte; grandiosa l’interpretazione del critico cinematografico Tatti Sanguineti, nei panni di un generale con la fissazione dei cimiteri per i nostri connazionali caduti in guerra. Sarà l’ormai consolidato amore per il cinema, ma Monicelli è capace ancora di fare dell’arte della leggerezza e dell'umorismo una tragedia, raccontando la guerra in cui non si combatte ma si muore. Semplicemente. Avremmo tanto voluto che registi come Scola, Luigi Comencini, Dino Risi e Monicelli, i grandi registi della Commedia all’italiana, avessero lasciato loro eredi, invece bisogna accontentarsi della mediocrità della commedia italiana di pseudo-fictionari-registi, che hanno finito per creare l’identificazione del “panettone di Natale” (da Commedia sexi a Natale a New York) con la commedia all’italiana di oggi. Eppure tutti sappiamo dei lunghi anni di travaglio produttivo, dei dubbi, delle difficoltà e dello spettro del fallimento del progetto che hanno preceduto Le rose del deserto. Dimostrazione reale che, quando dietro la macchina (compresa quella ‘pensante’, visto che il cinema ha un’anima e un corpo!) c’è una persona come Monicelli, anche a novant’anni si può essere capaci di raccontare l’italietta della seconda guerra mondiale, non dissimile rispetto a quella odierna, sia in tema di pace che di guerra, di dio e di quant’altro ruoti intorno ad esso.
Giancarlo Visitilli
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