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Grizzly Man

Regia di Werner Herzog vedi scheda film

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La recensione su Grizzly Man

di EightAndHalf
9 stelle

…e Herzog realizza il miracolo. Non nel senso più banale, per cui avrebbe fatto un film splendido, uno dei migliori della sua carriera (cosa che effettivamente è), ma perché, riconducendo finalmente il Cinema allo stato di natura, ha messo in scena,

indirettamente, il Reale. E non è poi un caso che il genere che adotta sia, alla fine, il Documentario.

 

È tendenza – o moda – a buon ragione dire che i film di Herzog definirli “documentari” sarebbe riduttivo, perché effettivamente nei suoi documentari Herzog sfiora la trascendenza. Ma quale trascendenza, alla fine? E come pensare poi di ottenerla attraverso le riprese di Timothy Treadwell, noto americano amante dei grizzly e sbranato tragicamente da uno degli stessi? Più della metà di Grizzly Man è composta dalle riprese del protagonista, non realizzate direttamente da Herzog ma rimontate. E solo in ambito di montaggio si può parlare di “ricostruzione della realtà”, perché in ogni caso è chiaro che il regista ha realizzato una selezione (su 100 ore di materiale) per discutere su più punti senza, però, alcun intento didascalico. Ebbene, in questa constatazione documentaristica, noi osserviamo una realtà riprodotta dallo stesso Timothy, che di fronte alla videocamera mostra i suoi lati più diversi, dalla frustrazione alla voglia di eroismo (nell’intento evidente, da parte sua, di trasformarsi in “mito”, in un superuomo privo però dell’intenzione di divulgare il suo credo), finanche alla sottile follia che lo caratterizza. Oltre ad essere, in questo senso, una sorta di allegoria del cinema di Herzog tutto e dei suoi sottotesti (dal tema ricorrente della follia, fino al riferimento a Kinski in Aguirre, furore di Dio, con cui Herzog litigò durante il making of), Grizzly Man diventa anche uno studio approfondito sullo strumento immagine e sulle sue conseguenze, di qualunque genere.

 

L’idea che Timothy riprovasse più volte i suoi discorsi di fronte alla telecamera (e il fatto che Herzog non soddisfi le intenzioni di montaggio di Timothy ma faccia vedere gli spezzoni delle varie prove una di seguito all’altra), lascia intendere l’intento di Timothy di “riprodursi per  quello che vuole essere”, dunque una sorta di manipolazione della sua personalissima realtà dentro il microcosmo che si è ricreato insieme agli orsi grizzly dei parchi nazionali. Intenzione, questa, che potrebbe apparire paradossale, visto il totale distacco che Timothy dimostra nei confronti della civiltà moderna e tecnologica; lo stesso utilizzo della telecamera può apparire incoerente. In realtà, però, attraverso l’occhio sempre presente di Herzog, capiamo quante implicazioni ha l’immagine, e soprattutto come essa sia sempre esistita, dopotutto, a prescindere dal concreto strumento “videocamera” o simili: Herzog riconduce il Cinema allo stato di natura riproponendone la visione immersa dentro un territorio verde, florido, ricco di insidie ma anche ricco di meraviglie. Il Cinema di Grizzly Man è “ragionato” e non istintuale ritorno al Primordiale: Herzog non ha intenzione di fare un film primordiale, ma va almeno tre volte avanti a questa intenzione realizzando “un film sul Cinema primordiale”. Dopotutto Grizzly Man non è altro che l’Arte stessa di fare documentari, di realizzare finzione, di riprodurre realtà. Quando ci vengono messe di fronte immagini immobili che sfuggono al controllo momentaneo di Timothy (che si allontana dall’immagine e lascia la telecamera lì a registrare l’apparente vuoto), allora è come se avvertissimo un brivido, un momento di purificazione, un piccolo miracolo poetico, perché a quel punto nessuno governa l’immagine ed essa ha preso il controllo sugli strumenti. L’immagine reale prende il comando. Stesso discorso si può fare quando Timothy comincia a parlare e a passare da un argomento a un altro di fronte alla videocamera, senza riprovare ma facendosi prendere da rabbia e furore: nessun controllo, nessun intento direzionistico, una semplice persona che si arrabbia come si arrabbierebbe, impulsivamente, un Grizzly.

 

Ma qual è allora l’intento di Herzog? Come finisce per parlare di metacinema, senza però diventare cerebrale o altro? Aggiunge la sua voce, nel sottofondo, una voce che onesta e immediata informa su cosa il regista pensa e su quale sia la sua riflessione. Non è una presa di posizione tirannica nei confronti dell’immagine, ma è la constatazione di quanto l’immagine in certi precisi istanti prenda il controllo e si liberi dalle catene dell’osservatore e del suo riproduttore. Un documentario, dunque, quello di Herzog, sulla Realtà che travalica l’Immagine, e irrompe nella frammentarietà della nostra natura civilizzata. È lui a dire che in certi momenti lasciando la telecamera a riprendere autonomamente, le immagini si liberano e prendono vita; è lui a dire che “l’attore prende il posto del regista”, l’Immagine prende il potere. E a quel punto niente potranno gli interventi di Herzog in sede di montaggio: quei momenti di Reale Realtà sono riprodotti e sono vivi, pulsano. Una visione mistica, osservare la Realtà, improvvisa, come mai nella vita “reale” la si vede. Perché anche nella vita reale c’è un Occhio, il nostro, che osserva e delimita il reale: qui, tramite l’immaginazione “vera” possiamo vedere la Realtà nella sua forma più pura, mistica, trascendente. Trascendente rispetto a cosa? Alla nostra Realtà civilizzata, un visione mistica possibile solo nella Natura, in un ritorno archetipale. Che poi la Natura sia indifferente, assurda, insidiosa, pericolosa, questo è un altro discorso. O forse è proprio il manifestarsi di un concetto: la pericolosità dell’immagine vera.

 

Herzog però è interessato pure all’atto stesso del riprodurre, e a cosa voglia dire “fare finzione”. Così, nella sequenza in cui ascolta la registrazione della morte di Timothy e dice che non va fatta sentire a nessuno, oltre all’ovvio intento morale quella di Herzog è la dimostrazione di come sia attraverso la finzione, dopotutto, che noi possiamo davvero vedere il Reale (o, anche, il Reale dell’Immaginario, ovvero il suo funzionamento). Herzog ci inserisce dentro plurime scatole cinesi, ci confonde, ma ci tiene sempre sull’attenti, nell’immanente (paradossale, assurda, magica) semplicità del suo film: la Finzione concede alla Realtà di esplicarsi, tramite l’Atto Creativo. Così come dentro i limiti dell’inquadratura l’Immagine prende autonomia e può librarsi, attraversare i limiti e attraversarci.

 

Abbiamo dunque in Grizzly Man la messa in scena del Cinema, il suo essere Resistenza. La conclusione più ovvia di una riflessione su realtà e finzione che è giusto che continui, ma che ha in questo film un (possibile, incredibile) punto di vista conclusivo e decisivo. Davvero immenso.

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