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Grizzly Man

Regia di Werner Herzog vedi scheda film

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La recensione su Grizzly Man

di scapigliato
8 stelle

Due soli sono i registi con lo sguardo contemplativo più evidente e più religioso. Uno è di fama internazionale, ed è Werner Herzog. L’altro, ugualmente grande, è il nostro Ermanno Olmi. Entrambi sono passati dal documentario al film di finzione per tornare poi al documentario. E si spera che trovino lampi per film a soggetto. Cos’è uno sguardo contemplativo? É quello di Aguirre, Fitzcarraldo e soci che, Kinski o non Kinski, hanno rappresentato l’alter ego del regista nel grosso della sua produzione. Quell’occhio calmo che impressiona la natura sulla pellicola. Lento, a volte titanico. Ecco, una sospensione. Herzog è sospeso, piccolo piccolo, davanti alle forme e ai fenomeni del mondo, che sono dei giganti, dei titani. L’uomo non è uno di questi giganti, ma nemmeno quel piccolo piccolo sospeso che guarda. Quello è il regista. Quello è ed è solo Herzog. All’uomo viene dato il ruolo del comprimario. Il termine paradigmatico, infinitamente più piccolo, ma paradigmatico, di tutto ciò che si vede e si contempla. La contemplazione è preghiera. In Olmi e in Herzog il filmaker sta pregando. A volte se ne accorge a volte no. A volte è una preghiera consapevole (Olmi) altre volte no (Herzog). Ma entrambi guardano, ammirano. Fissano nel senso di contemplare, cercare al di là della prima lettura. Come quadri cubisti o impressionisti o espressionisti, ecco che la vita è dietro il gesto, dietro la forma. La vita è anche la forma. Come il contenuto. La preghiera è una forma, e dietro ci sta la vita spirituale di ciò che contempliamo. Ciò che contempliamo Herzog lo impressiona sulla pellicola, o lo registra in digitale, dipende. Ma comunque opera una transfigurazione: il fatto oggettivo, attraverso la contemplazione, diventa soggettivo. Contemplare è un un’azione individuale, intima, personale. Il mondo, il fenomeno, il gesto: diventano nostri, entrano nella nostra percezione e diventano componenti di un immaginario come di una spirilitualità nostra personalissima. Questo è lo sguardo contemplativo di Olmi e di Herzog. Da cui poi ognuno dei due registi prende la strada verso la propria poetica e la propria estetica.
Herzog, Werner il Grande, con “Grizzly Man” e la vita autodistruttiva, se vogliamo, del suo protagonista Timothy Treadwell, continua la sua magnifica galleria di eroi tragici herzoghiani. Romantici e titanici nella loro lotta al destino, al prefatto e al “no plus ultra” che la vita, la società, forse anche Dio, ci hanno costretto. Nel senso di costrizione. Klaus Kinski, il più grande di tutti, è stato il maggior esponente di questa famiglia di eroi herzoghiani. Oggi magari abbiamo il Brad Douriff di “The Deep Blue Yonder” o il Timothy Treadwell di “Grizzly Man”, ma tutti alla fine possono rinominarsi o Werner o Klaus. Con questo docu-drama che rompe ulteriormente la labile distinzione tra documentario e film a soggetto, ficcion, il regista ci porta nel paradiso e nell’inferno di un uomo, che potrebbe essere ognuno di noi, ci piazza lì e poi se ne va. Ci lascia guardare gli orsi, ascoltare le follie, le auto-rappresentazioni le auto-confessioni, le isterie, gli sdoppiamenti di Timothy Treadwell. Poi viene a prenderci, ci fa parlare con i genitori di lui, la sua ex ragazza, amici e conoscenti. Anche il coroner diventa un suo piccolo biografo. La tragedia di Treadwell è la tragedia dell’uomo che sfida la natura. Ma non deve essere una riflessione così semplicistica quella che captiamo dal lavoro di Herzog. C’è qualcosa di più. Herzog ammonisce in più riprese le scelte estreme di Timothy. É di un avviso diverso: l’orso è natura, e la natura è incontrollabile; è anche cattiva. Dice bene quando inquadrando gli occhi di un grizzly in dettaglio, manco fosse un duello western, afferma che non vede altro che l’indifferenza della natura. Se guardiamo però gli occhi di un cane e di un cavallo scopriamo che quell’indifferenza è andata a farsi benedire. Ma un gatto, quello ancora la porta con sé. La natura va rispettata e amata, non semplicemente amata. Ma al di là di un ipotetico monito naturalista, Herzog ci parla dell’uomo e del’anti-uomo Treadwell. Il ricercatore viveva una scissione personale che è andata aumentando lungo i 13 anni passati a contatto, strettissimo contatto, con gli orsi. Voleva diventare anch’egli un orso. Abbandonare il mondo corrotto degli uomini e farsi orso, farsi natura, farsi volpe. Treadwell cercava una risposta panica al suo disagio. Un disagio che potrebbe avere radici sessuali. Lui, bel ragazzo americano, biondo e ben definito, che ammette sia di non essere gay sia di avere problemi con le ragazze, non ci sembra sincero fino in fondo. E una certa postura, un certo approccio alla solitudine, svela tratti femminili assopiti che si liberano nel momento in cui Timothy arriva il più vicino possibile a quella dimensione panica a cui aspirava.
Se c’è una linea invisibile che non va superata tra uomo e natura selvaggia, c’è anche un modo possibile perché l’uomo possa essere natura, lui che ne fa parte di diritto. Timothy Treadwell ha voluto superare la montagna di Fitzcarraldo ed è stato ucciso, ma nessuno potrà dirgli che non ci aveva provato. Ad una lettura più mitica del suo ruolo, il guerriero di cui Timothy dice di incarnare valori e ruoli, vediamo che Herzog non solo vuole proporci i vari tasselli di una personalità forse multipla, e per questo fragile e senza vera cognizione del pericolo, ma ci fa anche sospettare che forse Timothy avesse ragione. Combatteva stralunato contro giganteschi mulini a vento. Un novello Quijote che è arrivato persino a sfidare il governo americano. Tutto va ridimensionato, tutto. Anche le paranoie, le ipotesi complottistiche, gli sfoghi isterici, incazzati ed arrabbiati. Tutto fa pensare ad un cavaliere che non è di questo mondo, come il Quijote, e ci viene il sospetto che il regista, pur ammonendolo nel suo tentativo di farsi orso e di farsi anti-uomo, lo ringrazi e lo stimi per il gesto nichilista e ribelle senza compromessi, forse anche senza una vera causa, che in un mondo come il nostro tanto ci manca. Ma deve proprio e sempre finire così? Morto ammazzato?

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