Regia di Paolo Bianchini vedi scheda film
Forse - e vale la pena di ribadire il forse, perchè la materia del dibattito è fin troppo vasta e i dubbi possono fiorire legittimamente - il filone decamerotico è stato il più povero e squallido dell'intera storia del cinema italiano. Nel giro di un paio di anni successe tutto, a seguito del clamore e degli incassi del Decameron pasoliniano (1971); ma il vero problema del decamerotico è che venne portato avanti pressochè solamente da mestieranti, terze scelte e sciagurati, sia per quanto riguarda i registi che per gli interpreti. Paolo Bianchini, per esempio, che qui si firma Paul Maxwell, rimarrà per tutta la sua carriera nell'anonimato, fino a raggiungere un minimo di notorietà nei primi anni Duemila girando qualche fiction - e non fra le più famose - della Rai; gli attori di questo Decameron n°4, invece, sono e sono rimasti dei perfetti sconosciuti: e per fortuna, perchè il livello della recitazione è davvero infimo. Oltrettutto la scelta - in voga in quegli anni di commediacce sguaiate - di impostare i personaggi con esasperate parlate dialettali è proprio pessima: ancora ancora potrebbe essere comprensibile in una metropoli odierna, ma figuriamoci nelle campagne del Trecento quanti interscambi culturali fra le varie zone d'Italia potessero esserci. La sceneggiatura è firmata dal regista; in un ruolino compare Luca Sportelli (caratterista di serie B, comunque Marlon Brando in tale contesto); le musiche di Vasili Kojucharov sono dirette dal maestro Pregadio, in quegli anni ancora lontani dal successo della Corrida di Corrado in tv. 1/10.
Le allegre lavandaie trecentesche raccontano novelle licenziosissime in cui compaiono frati smaniosi di sesso, mariti cornificati a iosa, giudici che risolvono processi violentando le imputate...
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