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Lo squartatore di Los Angeles

Regia di Dennis Donnelly vedi scheda film

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La recensione su Lo squartatore di Los Angeles

di scapigliato
8 stelle

!!!!!OPINIONE RELATIVA AL REMAKE DI TOBE HOOPER!!!!
Il mito della casa maledetta ritorna tanto nel cinema horror come in Tobe Hooper. C’era una casa in quel Texas degli orrori; c’era un motel con tanto di coccodrillo; c’era una dark house a Salem, e via dicendo fino questo fatiscente Lusman Building e alla prossima camera mortuaria de “Il Custode (Mortuary)”. Remake di un vecchio film del 1978, l’hooperiano “Toolbox Murders” ovvero “i delitti della cassetta degli attrezzi”, fa nuovamene mostra della capacità irriverente, anarchica e disturbante del suo autore: il regista più pericoloso e sottovalutato del moderno cinema horror. Viviamo in tempi in cui si crede che la povertà di mezzi sia indice di produzioni trascurabili, che l’assenza di effetti speciali, di grandi scenografie e dell’imperante digitale, siano i segnali di un vero e proprio filmaccio. La realtà invece è ben diversa. Filmacci scadenti, vuoti, posticci, usa e getta, sono invece le grandi produzioni horror retoriche di oggi, da “The Ring” in avanti. Pellicole fatte più di effetti speciali che di una buona sceneggiatura; fatte più di azione pirotecnica che di personaggi disturbanti; fatte più di quel noisoso ed ignorante politicamente corretto che di una sana anarchica irriverenza perturbante. I film del maestro Tobe Hooper fortunatamente non hanno mai risentito di tutto questo. Sono film caserecci, fatti con il lattice. Sono film sporchi, cattivi, irriverenti nell’utilizzo degli archetipi splatter, e scomodi nell’architettura dei personaggi. Quest’ultimi sono folli, malsani, corrotti, anti-convenzionali e inquietanti. Lo è il tuttofare del palazzo, la coppia di sbandati, il vecchio Charles, il padrone del palazzo, il giovane voyeur e persino la coppia protagonista che non accetta il proprio inserimento in una realtà, quella condominiale, e vive borderline il proprio soggiorno. Su tutti primeggia, va detto, il deforme architetto esoterico Lusman che ricorda da vicino il dottor Freudstein di Lucio Fulci. Il momento più bello del film è infatti dedicato al suo svelamento in fondo al vano delle scale. La sua agnizione ha un che di erotico nel linguaggio cinematografico dell’horror e a tutto contribuisce l’architettura degli interni, centrale in questo film che vede un palazzo in un palazzo. Se filosoficamente il tempo crea spazio, possiamo ben dire che in “Toolbox Murders” lo spazio crea il tempo. In quel luogo aspaziale che è la dimora esoterica del deforme assassino, questi riesce a ricreare un suo tempo, inserendolo in un concetto più vasto di atemporalità.
In questo grande ritorno al perturbante hooperiano, il maestro Tobe Hooper crea una fauna di deviati che trovano la morte in una coreografia splatter tanto irriverente da non essere mostrata per intero, fedele al gioco per cui il si-vede-non-si-vede dei grandi autori mainstream combacia in lui con l’ironia parodica, uno schiaffo al gusto estetico imperante. In più, l’autore gioca con gli interni e la sua amata set decoration per sviluppare ancora e sempre la sua poetica di involuzione del nucleo famigliare o della collettività americana generale. La fatiscenza di questo palazzo degli orrori è la periferia dell’estetica moderna. Perché periferia? Periferia perché il cinema di Tobe Hooper è periferico: periferico alle grandi produzioni hollywoodiane, periferico nelle ambientazioni, periferico in senso di borderline nel tratteggio dei tipi e dei caratteri, periferico nel suo stile casereccio, lontano anni luce dall’estetica omologata del cinema odierno. Con “Toolbox Murders”, Tobe Hooper si riconferma parte di quel bellissimo mostro a quattro teste del new horror americano le cui altre tre portano nome George Romero, John Carpenter e Wes Craven. Ma io, personalmente, non credo che Hooper avesse mai avuto bisogno di riconferme.

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