Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
Immutato dalla versione originale, il titolo dell'ultimo lavoro di Eastwood introduce già i temi sviluppati dal film: il simbolo e la memoria, la trasmissione del passato e il succedaneo della verità. Ed ha un doppio plurale insidioso, nei padri e nelle bandiere, che annulla la stessa retorica che il titolo apparentemente implica.
Perché nel ripercorrere la vicenda dei protagonisti ritratti nel celebre fotogramma dell'alzabandiera sullo scoglio di Iwo Jima, Eastwood rielabora il vissuto storico di una menzogna intenzionale, di una verità artefatta a scopi propagandistici realizzata per ragion di stato, a sdegno della pubblica opinione e a vantaggio della pubblica adesione. La bandiera ritratta nel famoso fotogramma, riprodotto nello stesso manifesto del film, era un'altra, una ripetizione di un gesto originale con attori ed ingredienti diversi, un abbellimento mistificatorio di immediato impatto estetico. Era già la guerra nell'epoca della sua riproducibilità in scala, la messa in posa di un gesto che nella ripetizione perde valore storico e acquista senso iconico, l'unico valido nella società dell'immagine.
Flags of our fathers è un film sul mito, sulla sua ingloriosa fine nel travestimento, sulla ricaduta spettacolare della sofferenza, sull'esaltazione del sacrificio a scapito della sincerità. Ben più che sulla stessa sanguinosa battaglia, Eastwood si concentra sulla tourné che i protagonisti di uno scatto divenuto famoso sono costretti a fare per aiutare il patrio sforzo bellico. Personaggi di contorno nella foto, senza volto né identità, sono braccia, corpi che reggono un'asta dando le spalle alla macchina, che guardano sventolare la bandiera in controluce. La loro identità è superflua, la pertinenza della stessa partecipazione all'evento celebrato secondaria: sono corpi necessari alla messinscena del patriottismo, come sono stati corpi indispensabili all'impresa militare, carne da macello, fucile con un sostegno umano capace di azionarlo, numero di matricola su piastrine per caso ancora al collo.
La guerra ha cambiato armi e luogo, ma non logica. L'illusione della fama momentanea è paragonabile alla gloria sul campo, all'esaltazione della vittoria, ma non c'è reale differenza tra i due campi di battaglia, ne muta soltanto la consapevolezza da parte dei protagonisti e la scenografia, ironicamente reiterata dalla finzione rappresentativa che ripete e glorifica quel momento con tanto di ricostruzioni di cartapesta.
Nella sua struttura frammentata e mnemonica, con continui passaggi a diversi presenti temporali e soggettivi, Flags of our fathers è privo di scene madri, quasi evita la battaglia che è al centro della narrazione, si rivolge al rimosso privato dei suoi protagonisti nel contrasto tra il sofferto ricordo e la rievocazione imposta, nella esaltazione stessa delle loro gesta, quella continua celebrazione pubblica dell'episodio ad uso e consumo delle folle e del governo ma che imbriglia il dolore nella memoria individuale. È anche il ritratto di un paese che, oggi come allora, si nutre di mito e retorica, che traveste interessi da ideali, che esalta l'individualismo e cancella l'identità nella massa, mossa a piacere dal potere sullo scacchiere dei propri tornaconti.
Puntellandosi sulla illusoria e variabile definizione di "eroe", sulla bellezza statuaria di un gesto che sintetizzi il coraggio e la dedizione fregandosene della verità e limitandosi alla sua rappresentazione, Eastwood fa emergere la verità storica di una mistificazione politica, cercando il singolo individuo dietro al simbolo ritrae personaggi assillati dalla sensazione di vivere un destino sbagliato, di non essere partecipi della propria vita e di subirla solamente, come spesso nei suoi ultimi lavori.
Con una fotografia rarefatta nel colore, che riprende i toni contrastati del fotogramma originario, acquista immediata evidenza solo il rosso del sangue e l'ocra delle esplosioni. Quegli stessi elementi che la foto famosa aveva così elegantemente lasciato impliciti, relegati all'imbarazzo del fuoricampo.
È un film polisemico e corale, in cui la ricostruzione della storia si fa indagine psicanalitica e mnemonica, ricostruzione morale e sociale nel costante cangiare del punto di vista narrativo, con una precisa volontà straniante nell'andamento anticronologico e plurale che spazza via ogni retorica. La pellicola fa riemergere la memoria sommersa, il trauma personale dei protagonisti, per i quali il ricordo è una ferita non rimarginata. La battaglia è rivissuta a spezzoni lancinanti che sottolineano l'ossessiva casualità della morte in combattimento e l'assenza stessa di senso della guerra. Le ragioni di una guerra sono comprensibili solo politicamente, mentre a livello umano e singolare rimangono soltanto il dolore e lo stupore di poter comunque morire per un singolo proiettile, per una raffica casuale, per uno scontro tra simili.
Manca del tutto nel film il controcampo giapponese della stessa battaglia, delegato alla seconda pellicola, Letters from Iwo Jima. Perché qui il nemico è un fuori campo minaccioso, indefinito e orribile, ignoto e, semplicemente, avverso. Ma ugualmente impegnato nel medesimo scontro a fuoco sul fronte opposto, a condividere un identico dolore.
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