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Intolerance

Regia di David W. Griffith vedi scheda film

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La recensione su Intolerance

di EightAndHalf
8 stelle

L'occhio della StoriaIntolerance è la Culla che accoglie il mondo, le epoche, gli uomini, compressi da infinite variazioni ma tutti colti nell'atto di percorrere sempre le stesse coordinate, sempre gli stessi presupposti, l'odio, l'intolleranza, "che ostacolano l'amore e la benevolenza". Intolerance è anche la Culla del Cinema, di un'intera arte cinematografica che già aveva avuto un notevole esempio (checché si dica della portata ideologica) in Birth of a Nation, e che in seguito ha prodotto l'immensa epopea del fil rouge storico, ha compresso in tre ore sempre troppo brevi una variazione infinita e incalcolabile di stimoli, artistici e sovente filosofici, a partire dall'intrecciarsi ineguagliabile e inestricabile di destini fino al forte climax finale (ormai definibile "alla Griffith", tanto ha fatto storia) che esplode nella splendida illusione conclusiva. Con un compiacimento per le immagini spettacolari - che tutto Griffith, per ciò che racconta, può permettersi - il regista aggiorna ancor di più la grammatica filmica già esplorata in passato, dissestando i piani temporali e lanciandosi in un puzzle fulminante di impressioni esistenziali e di frammenti di senso, per definire il tema ultimo di un'opera indubbiamente a tesi ma abbastanza affascinante da non risultare appesantita: come l'uomo non cambi, nei suoi pregi e nei suoi difetti, di fronte a scarti cronologici e a contesti diversi, per indicare con un montaggio fulminante che la crudeltà, la discriminazione e il rancore (della guerra, delle religioni, della diversità, dell'intimità) siano i veri schiavisti dell'essere umano, le loro catene di ferro che non arruginisce mai anche se il tempo passa. Tanto è armonica e lungimirante la costruzione dell'intero lungometraggio (di cui tutti vediamo, purtroppo, versioni diverse: la più lunga è, oltre a quella originale, quella portoghese; le altre cambiano durata per ridicoli tagli a fondo commerciale) che le epoche diverse discorrono fra di loro in un botta e risposta in cui alla fine è proprio l'Uomo a discorrere con se stesso, e a scavalcarsi violentemente per imporre la propria presenza, sempre ostinato, sempre distruttivo. Le immagini si sostituiscono come se un epoca si compenetrasse con l'altra e la neutralizzasse, gli stacchi da un periodo storico all'altro (accompagnati per la maggior parte del film da didascalie di cui, spesso, si può anche fare a meno) sono un colpo di baionetta o di lancia o di pistola che "uccide" la sequenza precedente imponendo un altro periodo, con le sue contraddizioni, con le sue stesse figurine umane decadenti e con i suoi stessi mali, a questo punto inseparabili dall'uomo se non per intercessione divina.
Non è dunque un caso che una delle quattro storie (alle quali Griffith non dedica sempre la medesima importanza) sia quella della Passione di Cristo, che dopo alcuni miracoli e perdoni viene gettato in pasto alla folla e alla morte; non è un caso che le figure dei farisei, ipocriti per eccellenza, vengano paragonati alle signore per bene del tempo presente (tra due anni, il presente di Intolerance diventa un secolo fa), che riescono a incoraggiare un pagamento gravoso - e irrealizzabile, se non attraverso il sacrificio di molti operai - da parte della proprietaria di una gigantesca fabbrica; non è un caso che a Babilonia, nella leggendaria battaglia contro Ciro di Persia, si alternino ipocrisie private e astii "internazionali"; non è un caso che l'ipocrisia sia insita nel potere stesso (quello che dovrebbe difendere i cittadini, ma si ritorce su quelli "scomodi") nella Francia della Notte di San Bartolomeo. Il Male c'è sempre, ma va sempre complicandosi: prima si presenta nella sua forma più assoluta e primordiale, la guerra (le scene di battaglia vantano immagini realmente cruente, inaspettate per un film di quell'epoca), poi si oppone alla forma più perfetta di Bene, aggiungendo alla natura umana l'opposizione per eccellenza (e complicando dunque le cose), in seguito diventa intrigo di potere e stratagemma per organizzare razionalmente la distruzione, e infine diventa appannaggio di tutti gli uomini, che passano da un estremo all'altro della moralità per amore, e sembrano costretti a percorrere i suoi passi verso la fine sulla forca. E' un Male sempre più insidioso, un'evoluzione tecnologica kubrickiana ante litteram, come se la Culla dondolata da Lillian Gish fosse il futuro enorme monolite nero, e l'umanità non avesse altro se non la possibilità di rinascere, in un finale che può considerarsi ottimista ma non plausibile, una volontaria immersione nel puro sogno cinematografico, così come avrebbe potuto intenderlo Meliès, così come lo intende per la prima volta Griffith. Odissea nel tempo, ideale e definitivo (ma anche molto meno bello e più imperfetto, se si può dosare la qualità di due pellicole distanti anni luce ma entrambe tanto importanti da segnare un momento di discontinuità nella storia) compagno della pellicola di Kubrick, uno sguardo frammentario, a tratti programmatico ma straordinariamente affascinante, irresistibile e commovente sulla razza umana e l'insieme delle sue anime stanche, con almeno dieci sequenze micidiali: non solo la fine, ma anche il ballo della festa di Babilonia, in cui la mdp avanza e indietreggia al movimento dei ballerini e si muove intonando una leggiadra sinfonia visiva che cambia definitivamente, in pochi attimi, l'intera Settima Arte.

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