Regia di David W. Griffith vedi scheda film
Griffith mette in scena una macchinosa (ma riuscita) parabola racchiusa in quattro scatole, a dimostrazione di una tesi pregna di cristianesimo: dall'antichità al ventesimo secolo, è l'intolleranza che ha seminato l'ingiustizia nello sviluppo della civiltà umana e solo l'amore, quello puro, quello della madre per il proprio figlio potrà salvarci. Il regista si riscatta dalle bieche ideologie razziste alla base del precedente Nascita di una nazione e mette in piedi un baraccone sontuoso, immane, affascinante e fortemente simbolico. I personaggi non sono molti e sono inseriti in situazioni piuttosto didascaliche; i veri protagonisti di Intolerance sono le masse, la gente, l'umanità e già questo mostra la grandezza - quantomeno concettuale - dell'opera di Griffith. Che inoltre ripercorre e perfeziona le innovazioni stilistiche del film dell'anno precedente (in termini di scenografie, di narrazione, di scene di massa), puntando in particolare sul montaggio: quattro storie che si alternano continuamente, oltre ad essere suddivise internamente da un montaggio dinamico che 'spezza' e riordina i vari punti di vista dell'azione. L'idea (complessa, ma riuscita) di filmare e mischiare quattro episodi completamente indipendenti l'uno dall'altro - se non per la morale di fondo - è talmente avanti con i tempi che ancora un secolo dopo si ritrovano raramente opere che abbiano seguito questo tipo di percorso. Interessanti i paragoni simbolici disseminati dappertutto: la crocifissione e l'impiccagione, gli schiavi e gli operai: la storia è ciclica.
Palestina, Babilonia, Francia e Stati Uniti; dall'antichità ai giorni nostri (o, almeno, a quelli di Griffith): quattro episodi che mostrano come la civiltà umana si sia sviluppata nel segno dell'intolleranza e che gli innocenti sono da sempre le vere, uniche vittime di una società repressiva e maldisposta ad accettare le singole differenze, particolarità ed esigenze.
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