Regia di Federico Fellini vedi scheda film
Può essere considerato l’Effetto notte italiano? Riduttivo. Intervista non è solo il racconto di ciò che avviene dietro la mdp, sul set di un film, ma soprattutto un autoritratto del suo autore. Non è solamente il suo modo di vedere il cinema, perché a differenza di Truffaut, che viveva il cinema e a momenti lo confondeva con la vita, Fellini gioca con le illusioni. È ben conscio del labilissimo confine che divide realtà e finzione, ma vuole schivarlo, si diverte nel mischiare le due componenti e creare nello spettatore (ma principalmente in se stesso) una sorta di limbo interpretativo: ciò che ho davanti agli occhi è vero o falso? E non solo, finge di imbrogliare anche il tempo.
Sembra che per Fellini il presente non sia altro che il passato e viceversa. Non esiste il tempo, perché è un cane che si morde la coda, un cerchio che si chiude e poi si riapre, con gioiosa sconsideratezza. Però, conoscendo il Fellini degli ultimi anni (quello di Ginger e Fred, per dire), non si può negare un certo disagio nella rappresentazione dell’oggi. È un nostalgico involontario, Federico, e guarda al ieri sperando che traslochi al presente. Il motivo è semplice: certo, Cinecittà (protagonista assoluta della pellicola) è quasi sempre lei, con le sue maestranze figlie di una romanità genuina, i suoi segreti ingannevoli, le sue oniriche presenze. Ma è il mondo ad essere cambiato.
Da dove si capisce? Dal finale, che è sia finale del film in lavorazione che di quello vero e proprio. Riecheggiando alla scena conclusiva di 8 e ½, Fellini raduna i suoi attori, ma un crudele tempo da lupi non permette loro di portare la sequenza in porto. Insomma, dietro l’aria del solito sognatore c’è un pessimista crepuscolare. Ma la sequenza in questione appartiene al film in lavorazione (tratto dall’Amerika di Kafka) o ad Intervista? Sta qui il bello del film, nel non capirci tutto. L’importante è carpirne l’essenza profonda. I suoi detrattori ne lamentano il fellinismo esasperato della messinscena, l’inettitudine degli attori, la falsità del tutto. Eppure è la sua forza. In parte sono accuse finanche comprensibili, ma è ciò che ti aspetti da Fellini.
È un 8 e ½ aggiornato? Forse, benché il suo capolavoro assoluto sia una apoteosi della contemporaneità perenne; ma qui è più consapevole e paradossalmente addirittura meno lucido. Tant’è che la parte più felice del metafilm non è quella del film nel film, ma la seconda, quando entra in scena Marcello Mastroianni nei panni di Mandrake. Da grande attore qual era, non si capisce fino a che punto sia conscio di ciò che sta facendo. Recita o improvvisa sul momento? Sicuro è che l’ingresso della matronesca Anita Ekberg è fenomenale, e gli sguardi tra lei e Marcello, la loro consuetudine ritrovato, la dolcezza delle loro parole, l’atmosfera nella quale sono avvolti, beh, sono da antologia.
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