Regia di Jirí Krejcík vedi scheda film
Di Jirí Krejcík (classe 1918) abbiamo davvero visto troppo poco qui in Italia, sicuramente molto meno di quanto avrebbe meritato.
Dobbiamo pertanto basarci soprattutto sulle altrettanto scarse notizie che ci sono pervenute per “tentare” di inquadrare meglio il suo lavoro di regista, iniziato (credo) nel lontano 1947 con Svedomí (“La coscienza”).
L’unico titolo che da noi ha avuto una certa eco (ormai dispersa) è proprio questo Vyssi Princip (“Il principio superiore – Rappresaglia”) del 1960 (ma dovrebbe aver circolato molto marginalmente anche una sua precedente inchiesta sulla gioventù praghese - per la verità un po’ troppo romanzata per risultare davvero “credibilmente” attendibile – programmata come Le notti ladre della quale mi sembra di avvertire qualche labile ricordo un po’ appannato). Il suo, comunque, è stato certamente uno dei nomi di punta, insieme a quello più “celebrato” e importante di Jirí Weiss (qualcuno ricorderà senz’altro il suo Giulietta, Romeo e le tenebre) della cinematografia Cecoslovacca del dopoguerra.
Potrebbe risultare una curiosa coincidenza (ma a mio avviso la cosa è tutt’altro che casuale) la convergenza di temi che si riscontra proprio fra il film di Krejcík e il più noto capolavoro di Weiss, che va ben oltre l’analogia “temporale” del momento storico rappresentato (le repressioni seguite al riuscito attentato al Reichsprotektor Heydrich). Infatti, risulta praticamente corrispondente nelle due opere anche il processo evolutivo che riguarda la maturazione della coscienza non solo “politica” di un gruppo di studenti liceali, oltre che quella che potremmo definire come la “contrapposizione” fra generazioni diverse, che diventa in alcuni casi anche “conflitto” (o meglio scontro ideologico) quando il contrasto vede fronteggiarsi il patriottismo un po’ acerbo e incerto, ma determinato e propositivamente attivo di queste nuove leve piene di idealismo, e l’arrogante prosopopea dei “collaborazionisti” più attempati (purtroppo numerosi e ugualmente operativamente disturbanti), che non potrà che sfociare in una altrettanto “similare” (inevitabile) tragica conclusione. Io credo infatti che fosse proprio il clima che si viveva in quegli anni da “quelle parti” a far avvertire come prioritario e necessario un “percorso” che consentisse una analisi comportamentale (persino pessimista negli esiti, se si era permeati da una visione del futuro non proprio “rosea”) che trovasse il suo punto di partenza nella “condivisibile” conoscenza di un episodio anche eroico, ma che aveva poi generato ritorsioni e nuove “oppressioni” ancora superiori (sfociate a volte in conclusioni tragicamente cruente, fortemente sproporzionate rispetto ai fatti che avevano generato la feroce vendetta del potere) per rendere più chiaro il parallelo di riferimento con una realtà che appariva già particolarmente “deprecabile” a chi si trovava a viverla dall’interno (e che poi sarebbe arrivata alle rovinose conclusioni che conosciamo).
Proprio alla luce di queste considerazioni, diventa allora davvero meno sorprendente questo “cammino” parallelo che si ritrova in un certa misura anche sul piano dell’approccio figurativo alla narrazione. Semmai è la modalità del “linguaggio” utilizzato (lo “specifico” cinematografico della rappresentazione, insomma) che – al di là della forma complessiva – si distanzia notevolmente, e questo anche per la differente statura “artistica” dei due registi: forse più sterile, ma certamente con una carica di “stimolante innovativismo” in più il lavoro svolto da Weiss, orientato verso la ricerca e l’avanguardia dell’espressione (a volte persino in forte contrasto con il contenuto “ideologico” della sua opera); altrettanto “personale”, ma indubbiamente molto più conforme e “concreto” quello di Krejcík.
La composizione del racconto, contrappuntato da frequentissimi “stacchi” a volte quasi repentini e un montaggio rapido e ritmato, oltre che attento ai riferimenti e ai rimandi fortemente allusivi delle situazioni, che si risolve in folgoranti e netti cambiamenti di registro, è invece similare, anche se approda a un esito finale fortemente differenziato nel “senso” (inteso come “messaggio da veicolare”): in un caso, un chiaro e “incoraggiante” invito indirizzato a credere nella speranza di una rinascita, per la certezza “inoppugnabile” di un “inevitabile”, necessario mutamento profondo, avvertito come “a portata di mano”; nell’altro il pessimismo di una paralizzante angoscia esistenziale probabilmente senza alcuna possibilità di sbocco.
Per tornare comunque a Il principio superiore, (poiché è di questa pellicola che si sta parlando adesso) è importante sottolineare che l’aspetto più coinvolgente del suo encomiabile obiettivo anche divulgativo, indiscutibilmente di forte intento didattico, è riscontrabile, più che nella storia vera e propria, nelle atmosfere generali ricreate intorno ad essa, dense di trepide attese, di sospetti, di azioni consumate nell’ombra e di interni conflitti, ben sottolineate dal cupo e pesante, quasi opprimente clima dell’occupazione. E dentro a questa cornice, l’attenzione è più focalizzata verso le impercettibili (solo in apparenza) annotazioni psicologiche e l’elegia delle piccole cose. Tutto risulta insomma un po’ minimalista: gli ambienti ristretti dentro ai quali agiscono i personaggi, i loro “sentimenti” così comuni e privi di guizzi da sembrare persino un po’ logori, tanto da far apparire ancor più fragile e diluito il già esile procedere della vicenda, fino a farlo sembrare in alcuni momenti, quasi marginale o persino pretestuoso (finalizzato cioè alla enunciazione della “tesi”). Ciò non esclude ovviamente nel regista una salda posizione ideologica, sempre presente e avvertibile, una encomiabile adesione positivista verso la fiducia , pur con una consapevole considerazione dell’esistenza delle storture aberranti delle deformazioni “malefiche” della dittatura – ricercate, almeno sommariamente, nelle loro origini – alle quali si offre (o si cerca di offrire) una possibilità di rimedio, una soluzione non solo contingente che possa risultare redentiva anche se impervia. Non basta un “semplice” invito alla speranza – pare affermare il regista – per estinguere (o semplicemente alleviare) tali mali: occorre viceversa una fermezza anche operativa che coinvolga pensiero e azione, un’intima capacità di reazione, una adesione “incondizionata” all’idea fondante che è necessario costruirsi da soli (pur se nell’ambito di una coralità più generalizzata che operi nella stessa direzione e con analoghe finalità) quel futuro “migliore” che gli elementi oppressivi contrastano e negano, perché senza questi sforzi, individuali e collettivi, niente sarà possibile o potrà essere dato per scontato. E un mondo nuovo (o comunque diverso) contribuirà a costruirlo alla sua maniera (o forse semplicemente ad “indicarlo” come raggiungibile) quell’anziano professore che gli allievi scherzosamente chiamano signor Principio Superiore (e al quale si riferisce proprio il titolo dell’opera) dopo che il dramma si sarà consumato fino in fondo.
Succederanno infatti cose terribili nella tranquilla cittadina di Kostelec dove è ambientata la storia, perché dopo l’attentato al Reichsprotektor, tre studenti verranno arrestati e condannati a morte (è questa, appunto, la “rappresaglia”) a causa di una innocua caricatura stilata su dei fogli di carta (sembra quasi di essere immersi in un presente disturbante per come sono immutate ancora oggi le condizioni, di quanto faccia ancora paura e sia avversata, seppure in maniera meno tragica, la satira politica “oppositiva” al potere), né il loro insegnante, che continua a meditare sul glorioso passato di una antichità ormai sepolta, su Seneca che si suicidò per sfuggire alla tirannide di Nerone, riuscirà nell’intento di salvare le loro vite. Le persecuzioni, le stragi, le fucilazioni si susseguiranno allora implacabili, con le voci di stridenti altoparlanti che diffondono in ogni strada e piazza interminabili elenchi di vittime e il capo della Gestapo che significativamente ordina che vengano presi degli operai, dei contadini e qualche intellettuale (per la nota legge del taglione dell’uno a 10 o a 100) per reprimere ed “annullare”, le forze più vivacemente attive fra quelle che non si flettono al gorgo e piegare loro le gambe e la schiena. Non mancano, per contro, i delatori, e soprattutto i pavidi borghesi che hanno un prestigio, una posizione e una convenienza da difendere, come per esempio il padre di Jana, la ragazza innamorata di un dei tre studenti imprigionati che, non esita a sostenere con una sorta di prosopopea codarda: “Compromettermi per tre ragazzi?! Oh, questo no! Mai!” e su di loro il giudizio è implacabile. Ma i giovani questo lo sanno (lo hanno sempre saputo, per lo meno quelli che hanno vissuto e lottato all’interno di “quei tempi bui”) e forse è allora proprio per questa oggettiva consapevolezza che, una volta superato il primo comprensibile choc, non avranno bisogno di ulteriori maturazioni o appoggi: coloro che “sono chiamati” ad affrontare la morte, non saranno né deboli né vili, seguiranno a testa alta la loro sorte, e costituiranno così l’esempio sul quale gli altri potranno – se lo vorranno fare – imparare a valutare, giudicare e agire, a ritrovare insomma la loro “coscienza attiva”. Ed è proprio da questi giovani, dal loro “martirio”, oltre che dalle disillusioni della realtà, che il vecchio professore acquisirà una coscienza storica e politica (combattere e non “sfuggire” alle proprio responsabilità) che prima non possedeva, riuscendo così ad integrare la lezione del passato con le esigenze del presente, come dimostra il discorso che egli rivolgerà in conclusione agli alunni superstiti, ai “sopravvissuti”, che termina proprio con una affermazione potente da non dimenticare (che è fondamentale ancora oggi e che non dovrebbe essere elusa come invece accade troppo spesso, facendoci perdere il senso delle proporzioni e delle cose): “Per un principio morale superiore non si deve considerare assassinio l’uccisione di un tiranno” . Che il sangue puro e innocente delle giovani vittime ricada allora sempre sul capo dei loro carnefici e che ci sia sempre qualcuno disposto a mettere in gioco persino la proprio vita affinché ciò avvenga, senza scrupoli morali o recriminazioni postume e questo, più che un messaggio, è un incitamento, o meglio ancora, una lezione di vita da tenere sempre presente e mettere in pratica quando si rende necessario farlo o è possibile. Il film è pieno di “potenti” sequenze fortemente coinvolgenti difficilmente dimenticabili, come l’immagine finale del vecchio insegnante che, in primissimo piano, muto ci fissa dallo schermo – e sembra proprio che sia a noi spettatori che stia ammiccando - prima di annuire lievemente con un cenno del capo; oppure l’altra altrettanto importante, capace di competere, per intensità drammatica, con il celebre pezzo della morte della Magnani in Roma città aperta di Rossellini, che vede la madre del giovane Milan (uno degli studenti a cui è stato riservato il supplizio della fucilazione) scagliarsi, dopo una corsa angosciosa, contro la sentinella tedesca che si difende colpendola con il calcio dell’arma prima di spararle addosso una raffica di mitra che la renderà inoffensiva e inerte per sempre.
Un film insomma che sarebbe importante proporre anche alle nuove generazioni, poiché avrebbe ancora molte cose da “insegnare”, o indicazioni operative da suggerire, come quella che è indispensabile rimanere coerenti e fedeli all’idea fino in fondo e che mai ci si può davvero “tirare fuori” anche per semplice disamore”, perché ne va davvero del nostro futuro.
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