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Necropolis

Regia di Franco Brocani vedi scheda film

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La recensione su Necropolis

di precint13
6 stelle

E' il film più noto di Brocani (insieme a Clodia-Fragmenta), rimasto pressoché invisibile per decenni e recentemente pubblicato in DVD e meritoriamente trasmesso da Fuori Orario.
Opera tra le più intriganti del cinema d'avanguardia italiano, da accostare ai lavori di Grifi, Baruchello, Schifano (per cui Brocani era stato in passato collaboratore nonché attore in Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani), forse anche Carmelo Bene.

In una necropoli/cinema, sfila una galleria di personaggi/attori che (re)interpretano (re-immaginano, cioè riplasmano e distornano l'immagine) miti e archetipi (quasi tutti mostruosi - Frankenstein, Attila, Eliogabalo, la diabolica e pluriomicida contessa Bathory), immersi in scenografie minimaliste, spesso semplicemente illuminati in controluce su sfondo nero. Teoria estenuante di finti piani sequenza che s'interrompono bruscamente, assortendo ieratiche carrellate e lunghi piani fissi in un susseguirsi joyciano che non ha soluzione di continuità.

"Quando si diventa immagine, anche solo di se stessi, si capisce non tanto di aver perso il controllo, quanto di non averlo mai avuto" - dice Enrico Ghezzi al termine della sua presentazione prima della messa in onda del film su Rai 3. Film polisenso, destruttarato, rigoglioso e simbolico, imbevuto di pulsini di sesso e morte (e rinascita - e quindi cambiamento), impregnato di molteplici forme, tutte mutevoli e aleatorie, che riportano all'impossibilità della forma. Per Jung stesso è impossibile costruire un rapporto diretto con l'archetipo (la forma prima) ma solo con le sue manifestazioni (siano esse esperienze, concetti, immagini, simboli, risultanze) nel corso dei secoli e all'interno delle diverse culture. E in Necropolis, i miti stessi della cultura si sfaldano non tanto nella controcultura di quegli anni (riferimenti diretti a Kenneth Anger e Mick Jagger, cast inzuppato di membri della factory di Warhol), quanto nella sua configurazione post-strutturalista che, mediata dal teatro di Artaud, si rifà a Nietzsche attraverso Deleuze e Klossowski.
Difficile decifrare e ricomporre il puzzle del simbolo, sicuramente impossibile ricorrendo al linguaggio verbale. Il mosaico di lingue svapora nel nulla, nella prigione del non-senso; la risposta definitva ce la fornisce il diavolo di Carmelo Bene (indimenticabile), oramai incapace di pronunciare un verbo (e colpisce che Carmelo Bene, una delle voci più belle del secolo, venga pressoché ridotto all'afasia, al gorgoglio, al borborigmo, allo strozzato verseggiare gutturale).

Non è un film per tutti, anzi. Quanti, spaesati dalla programmatica assenza di riferimenti, decideranno/hanno deciso di abbandonare la visione dopo pochi (o tanti) minuti? Una reazione comprensibile, certo, ma chi decide di affondarvi (magari tirando i propri freni di resistenza intellettuale) potrà forse trovarvi gli intriganti germi di un cinema poco conosciuto ma, in maniera invesramente proporzionale, interessante e stimolante, capace di mettersi continuamente in discussione. Un cinema, quello degli autori succitati, di cui dovremmo andare più orgigliosi. E che dovremmo vedere - e conoscere - di più.

P.S. Oltre al geniale Bene, colpisce l'improbabile e interminabille monologo di Corazzari (!) nel ruolo di Frankenstein (!!!).

P.S. 2: strepitosa colonna musicale di Gavin Bryars, in particolare nel segmento con Attila-Clementi.

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