Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Oggi voglio parlarvi di un film che tutti voi avrete visto e rivisto, The Departed di Martin Scorsese.
Scommetto che l’avete anche apprezzato parecchio. Non per fare il bastian contrario o per tirarmela da snob. È forse il film di Scorsese più brutto. Ma come, è il film che ha finalmente permesso a Scorsese, dopo una miriade di nomination andate scandalosamente a vuoto, di vincere come Miglior Regista, per cui dopo un’interminabile, angosciante attesa ingiusta, insopportabile, ha impugnato e alzato al cielo la statuetta del tanto bramato e agognato Academy Award.
Sì, però è stato un profondo equivoco. Scorsese non meritava affatto di vincere con The Departed. Il suo film più standardizzato, hollywoodiano e canonico, privo di veri, passionali guizzi, una partitura intelaiata sulle note martellanti e abusate dei Rolling Stones e di John Lennon, altrove utilizzate in maniera più energicamente pertinente, più sanguigna, più veracemente pulsante.
Un film della durata di 2h e trentuno minuti, scanditi da una sceneggiatura piuttosto banale e prevedibile, inzuppata di dialoghi cinicamente programmatici, triviali e sardonici, scarsamente sorprendenti, redatta da William Monahan, allestitore di un pot-pourri gangsteristico-poliziesco sgangherato, assurdamente anch’essa premiata con l’Oscar.
Sì, l’inarrivabile regista fenomenale di Taxi Driver, il poeta del nuovo post-realismo contemporaneo, l’antropologo che ha vivisezionato meglio di chiunque altro i disagi metropolitani degli Stati Uniti dagli anni settanta in poi, è incappato in un farraginoso, facile thriller abbastanza sconclusionato, pasticciato, girato in fretta, mal servito da una piatta fotografia del pur immenso Michael Ballhaus, compianto cinematographer tedesco che in altre pellicole scorsesiane, come ad esempio il dinamitardo, stupefacente, burrascoso Quei bravi ragazzi o il levigato, magnifico e raffinatissimo L’età dell’innocenza, invece aveva dimostrato appieno di essersi guadagnato la patente di sibillino direttore di luci, ineguagliabile maestro sofisticato di chiaroscuri crepuscolari dalla cristallina levità, sguardo poeticamente lunare d’abbagliante cupezza suadente. Qui purtroppo già stanco, svogliato, quasi addirittura televisivo. Prodigiosamente deludente nel filmare il tutto, filtrandolo con sciatteria formale scolastica da farmi impallidire, lasciandomi esausto, abbattuto, enormemente rammaricato a compiangere il talento suo, in tal caso sprecatissimo, così spesso capace in passato di tinte e soavi illuminazioni crespe che tanto perfino mi commossero per la loro fulgida tetraggine, per la loro languidezza mortifera, cimiteriale e plumbea. Schiacciato e compresso da una produzione che ha preteso la sveltezza, l’asciuttezza eccessiva, le tonalità più adatte a un pubblico di massa.
Basterebbero questi principali elementi per declassare The Departed, ridimensionarlo, sacrosantamente sminuirlo e togliergli l’appellativo immeritato di capolavoro. Siamo molto lontani dal capolavoro, davvero.
Posizionandolo, tutt’al più, nella zona della convenzionalità insipida appartenente alla poco onorevole, impersonale media dei film a stelle e strisce. Sì, Scorsese, allettato dalla prospettiva di poter dirigere un film potenzialmente già predestinato all’Oscar, come infatti puntualmente è avvenuto, da sé ha fuorviato le sue più autentiche traiettorie emozionali, ha rinnegato e parodiato la sua originalità pazzesca, la sua lucida follia da geniale, pirotecnico metteur en scène profetico e innovativo, sbandando nella landa insulsa della commercialità ridondante, volgare, adattandosi pigramente al riciclo dei suoi stessi stilemi qui reiterati fastidiosamente ad libitum. Tanto da negativamente allibirmi di scontento e ferale amarezza.
La trama è abbastanza snodata eppur semplicissima, incentrata sulle indagini del Dipartimento della Polizia di Stato di Boston riguardanti la cattura dell’efferato, demiurgico, lercio boss della malavita irlandese, Francis “Frank” Costello (un al solito grandguignolesco ma già molto invecchiato e manieristico Jack Nicholson). Con le varie sotto-trame intersecate fra loro, fra cui spiccano le vicende personali di due giovincelli ambiziosi (Matt Damon nella parte apparentemente integerrima e cazzuta di Colin Sullivan, DiCaprio in quella dello psicotico ma caparbio William “Billy” Costigan), schierati oppostamente nel mezzo paludare d’una regione psicologica insanabile, un’allertante, labile linea rossa, specularmente bramosi di voler medagliare le loro coscienze per sigillare una perpetua ricerca salvifica atta ad afferrare fugacemente una presunta giustizia esistenziale che possa discolparli dal loro umano errare in ogni senso, panacea ipocrita al loro battesimale, infernale già esser nati, come tutti, macchiati dal peccato originale. Da redimere nella vana speranza di un’omeostasi emotivamente equilibrata, già marchiati appunto innatamente dal loro dannato essere all’origine avidamente corrotti, lesi nella verginità delle loro traviate purezze. Perché figli di questo mondo maledetto da Dio. Di una società che a gente comune permette solo due scelte antitetiche ma al contempo complementari: o fare il poliziotto figlio di puttana oppure intraprendere la strada della più pericolosa e irreversibile criminalità oscuramente sfacciata. Su questo sottilissimo crinale, le loro vite viaggiano un po’ incoscienti ma decise e impavide, perdute nell’empio, esecrabile illudersi di essere persone decorose, sane, stabili. Invece, Colin e Billy sono due scellerati, involontari profanatori della loro anima, pagliacci dei loro demoni cannibalistici. Inghiottitori delle linde genuinità da lor stessi, giorno dopo giorno, succhiate e divorate.
E in mezzo ci sono la psichiatra dubbiosa, frustrata e vogliosa, (Vera Farmiga), il pacato e coraggioso Queenan (Martin Sheen), il casinista Ellerby (un pachidermico, goffo ma irruento Alec Baldwin) e il bastardo Dignam (Mark Wahlberg), incarnazione imbarazzante della tragica e grottesca, ridicola commedia umana, personificazione deus ex machina di ogni folle conflittualità risolta con la prontezza violenta di un grilletto azzera-tutto. Secco, spietatissimo. Agghiacciante.
Tutto qua.
The Departed è un po’ contraffatto in tutto. Remake americanissimo d’Infernal Affairs (Mou gaan dou), fiocamente evocato con far maldestro in un’irrisoria scena notturna con tanto di sciocca gang cinese, messa lì solo per citazionismo da strizzatina d’occhio rapidissima e furbetta. E in un altro siparietto-inseguimento fuori dal cinemino a luci rosse. Ha ritmo, si segue volentieri ma i dialoghi, ripeto, sembrano alle volte provenire da Tony Scott, e l’uso della colonna sonora non è quasi mai funzionale al pathos da profondere alla scena visivamente narrata. Usata semmai a mo’ d’inevitabile espediente scontato, come stratagemma noioso per forgiar di voracità un’azione frequentemente loffia, stonata, alquanto monocorde e fredda
DiCaprio gigioneggia ghignante nella sua peggiore imitazione di De Niro, gesticolando irritantemente a più non posso, Damon ridacchia ed è imbambolato, smorfioso. L’unica a svettare è la bella Vera Farmiga, che riluce di pulita eleganza acqua e sapone, di tosto e nervoso sex appeal quasi maliziosamente androgino da fragile ma determinata donna in carriera. E veste tailleur di gran classe. Chapeau.
Sì, lei è la cosa migliore, tutto sommato, di un film non certamente brutto, sì, abbastanza carino. Ma l’aggettivo carino rivolto a Scorsese è un’offesa, un’onta. È quasi un insulto, un insulso complimento delittuoso...
Stento a credere inoltre che un fantomatico Frank Costello abbia la sua magione arredata come un broker di Wall Street, che alterni, intercali e intervalli i suoi crudeli assassinii con scespiriane frasi da dotto ed erudito saggio della montagna, e che i poliziotti veri, nonostante possano essere, certo, bruschi e arrabbiati, interagiscano fra loro di botte-risposte da sguaiata sit-comedy.
No, non ci siamo.
E sappiate che questa recensione è firmata da chi considera Scorsese uno dei massimi registi viventi.
di Stefano Falotico
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