Regia di Joachim Hedén vedi scheda film
Non si riesce bene a comprendere il motivo per cui a volte delle vere e proprie perle cinematografiche (il paragone non è casuale e chi avrà la fortuna di vedere il film lo capirà) rimangono celate al grande pubblico mentre vagonate di paccottiglia assortita continuano imperterrite a fare il giro delle nostre sale, con grande compiacimento ovviamente di coloro che hanno tutto l’interesse a mantenere verso il basso i LIVELLI qualitativi per garantirsi adeguati LIVELLI di affluenza.
Questione di scarsa educazione all’immagine probabilmente. Questione di cultura visiva forse latente all’interno delle masse che assalgono a frotte le compiacenti multisale specie in occasione dei fine settimana.
Ed eco che questo misconosciuto “New York Waiting”dello svedese Joachim Héden, lontano anni luce dai soliti cliché cui la cinematografia statunitense ci ha purtroppo abituati, capolavoro di finezza e sensibilità registica proveniente direttamente dai benemeriti circuiti indipendenti americani, trovatosi non si sa come ad essere inserito nel programma della prima Festa Internazionale di Roma, riesce a sorprendere gli sparuti privilegiati presenti alla sua prèmiere italiana per il coinvolgimento emotivo creato, fatto di sottili emozioni e vibrazioni sul filo dei ricordi, per le sue suggestioni liriche e visive, per quel modo esclusivo di sviluppare temi carichi di sentimento con grande asciuttezza e vibrante carica poetica, per l’accurata attenzione nei confronti dei più insignificanti particolari, per la cura maniacale rivolta alla psicologia dei personaggi oltre che per l’estrema finezza e godibilità dei dialoghi in versione originale, il tutto velato da una suggestiva atmosfera minimalista che fortunatamente non fa affatto tendenza, ma crea le giuste premesse per una sana godibilità di visione, il tutto condito con un’avvincente colonna sonora in evidente funzione espressiva.
In un’efficace alternanza tra un presente carico di potenziali promesse ed un passato intriso nel morbido grigiore di un bianconero che evoca recenti e dolorosi ricordi mai sopiti e dove lo scrosciare della pioggia assume la valenza di una dolorosa metafora, “New York waiting” procede con leggerezza estrema, senza mai forzare sul ritmo, lungo un tracciato fatto di attese, di cambiamenti, di rimpianti, di sentimenti che non si rassegnano a svanire all’ombra dell’oblio, di nuovi palpiti che in modo quasi impercettibile sorgono sotto l’ala protettrice di una New York quasi alleniana, ricca di verde, di colori ovattati, di un’atmosfera primaverile che non riesce a lenire le ferite dell’anima, ma anche di multicolori visioni notturne riflesse nelle sagome dei grattacieli ripresi da una prospettiva aerea.
Una New York, insomma, che aspetta in silenzio il pigro evolversi degli avvenimenti, il lento fermentare delle affinità nascoste che chiedono (ma non ottengono) di venire alla luce, che contempla distratta i piccoli, impercettibili drammi della vita, non negando di offrirsi come ideale palcoscenico per nuovi ed inediti incontri all’ombra di una sottile e forse passeggera disillusione. Una New York paziente, che aspetta che l’alchimia di un nuovo, fortuito incontro, giunga a realizzazione, pur con estrema lentezza, d’altra parte estremamente necessaria per mettere debitamente a punto le relative affinità caratteriali, celate nell’archivio dei desideri non espressi. E l’ombra di “Lost in translation” è appena lì dietro l‘angolo perché anche nella presente pellicola è assolutamente impossibile recuperare l’evanescente fascino eversivo dei gesti, degli sguardi e degli atteggiamenti minimali, parzialmente perduto nella translitterazione in parole.
Il regista affronta la sua prova con discrezione estrema, badando più al viaggio di maturazione dei suoi personaggi attraverso le apparenti coincidenze della vita che ad un’evoluzione affettata della storia, inglobando i silenzi, le pause, le attese nel medesimo tessuto connettivo della materia, offrendoci un finale forse scontato in questo suo dramma rivestito dei panni della commedia (o viceversa, perché i due generi qui si lambiscono e si compenetrano a vicenda), anche se ci risparmia fortunatamente, e sarebbe stato l’unico neo di un capolavoro tutt’altro che annunciato, il tipico finale hollywoodiano scritto con carta carbone anche in un periodo in cui non esistono ormai più in circolazione le macchine da scrivere.
Riuscirà il film ad arrivare nelle nostre sale senza essere letteralmente massacrato dal solito doppiaggio in grado di dissolvere buona parte del suo fascino evocativo? La risposta è scontata e non ammette alcun dubbio, per la serie “Carpe diem oppure continua a mangiare ste' minestre riscaldate!”
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