Regia di Pippo Delbono vedi scheda film
Il teatro creativo di Pippo Delbono si fa cinema con naturalezza. Basta far uscire dalla penombra del palcoscenico lo sguardo implorante ed allucinato della sua disperata introspezione, per far sì che, con serenità, si apra sul paesaggio, vasto e limpido, della realtà visibile a tutti. La storia parte da un luogo chiuso e oscuro, dal quale attinge la sua verità: può essere la prigionia di un ricordo doloroso, oppure il mondo segreto di un ospedale psichiatrico, o ancora l’ermetismo di una follia stentatamente decifrata dalla ragione. Quando il viaggio esce alla luce del sole, la dura logica del tempo si interrompe, per sciogliersi in una fantasia assurda, eppure piena di gioia e speranza. Le condanne sono fatte per farci crescere, e non sono mai definitive, anche quando sono estremamente crudeli. Bobò è rinato, dopo cinquant’anni trascorsi in manicomio. Pepe si è salvato dall’inferno di una dittatura. Pippo è guarito dalla malattia fisica, dal rimorso, dalla sensazione opprimente di aver sognato invano, o forse soltanto per commettere qualche imperdonabile errore. Questo dramma autobiografico è un monologo esteso alla partecipazione di chi, passando di lì per caso, si è trovato ad ascoltarlo: amici vecchi e nuovi, fantasmi viventi, echi di una follia che continua a giocare a rimpiattino con la lucida filosofia di chi non si ferma all’apparenza. Il presente è un velo trasparente posato sul passato, che sfuma lo sfondo, e confonde i soggetti in primo piano, trasformando il caos esistenziale in un delicato effetto di immagini in sovrimpressione. Gridare, in questo film, è ribadire il senso attraverso il fitto tessuto del paradosso, insistere sull’importanza di esserci, per riallacciare i nodi tra l’universo individuale, incomprensibile, singolare, forse inventato, della letteratura e della pazzia, e il vuoto clamore dell’evidenza. Mostrare la propria diversità in mezzo ad una comitiva di turisti imbarcati su un bus panoramico. Incontrarsi e perdersi in un luogo inesistente, come un edificio abbandonato, che sta in piedi pur essendo morto. Recitare sottraendosi al dominio della parola, con i gesti senza scopo che seguono trame dal significato sfuggente. Un sordomuto è un mimo vero, un pagliaccio che rimane serio mentre ride di sé: è l’incarnazione della poesia purissima, che si rifiuta di affidare la propria indipendenza espressiva alle bizzarrie dell’aspetto verbale, alle incoerenze semantiche ed alla frammentazione ritmica, per rivendicare una totale libertà di forma e sostanza. La moderazione è un insipido assoggettamento alle convenzioni; autonomo ed autentico è solo ciò che si colloca agli estremi del possibile, nel silenzio o nell’urlo. La voce di Pippo è una forza indomabile, aggressiva e bellicosa, me non meno battagliero è il sorridente tacere di Bobò. Nessuno dei due si vuole arrendere a seguire il già detto. Anche interpretare l’Enrico V di Shakespeare non può esaurirsi nella semplice ripetizione del copione. Il testo va aperto a caso, esposto al vento, dato in pasto alla rabbia. Intanto il nastro della memoria si riavvolge, ma non torna esattamente indietro, perché i suoi fotogrammi si proiettano sullo schermo del futuro. Pippo Delbono ci invita a pensare oltre, anche quando la razionalità è una gabbia e gli esseri “normali” sono spietati carcerieri. Ed è questo il suo appassionato, smanioso grido, pieno di spasmodico coraggio e scalpitante fede.
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