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Mon colonel

Regia di Laurent Herbiet vedi scheda film

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La recensione su Mon colonel

di Aquilant
8 stelle

Classificare “Mon Colonel” come una sorta di thriller psicologico potrebbe certo risultare fuori luogo, eppure tra i molteplici motivi d’interesse del film di Laurent Herbet, peraltro non certamente privo di suspence grazie ad una tensione accuratamente calibrata, la nostra voglia di arrivare seduta stante al finale per fare luce sulla sorte del giovane Guy Rossi, nonostante l’altissimo tasso di coinvolgimento generato dalla tale pellicola, (ed a tale proposito veniamo in parte lasciati con la bocca amara) si fa sempre più pressante man mano che la questione morale sollevata dal diario personale del protagonista si avvia all’epilogo, fino alla definitiva calata del sipario su una fine quasi annunciata ma non svelata del tutto.
Credevamo d’aver visto tutto con la “Battaglia d’Algeri” e invece no. Là dove la coralità la faceva da padrona ed anche il Colonnello Mathieu in fin dei conti era da considerare poco più di una pedina (al massimo un alfiere) nelle mani del compianto Pontecorvo, qui la vicenda acquista una dimensione maggiormente privata. E più che esplorare la dimensione collettiva del conflitto, sceglie per esplicita volontà del suo autore di soffermarsi sulla contrapposizione dialettica fra due mentalità antitetiche: da una parte il rispetto primario per la vita, in ossequio ad una sorta di concezione morale da applicare ai meccanismi del comando mentre dall’altra emerge con prepotenza la subordinazione ferrea alla ragione di stato relativamente al mantenimento dello status quo ad ogni costo, anche a rischio di infrangere la legge. Non c’è dubbio sul fatto che il luogotenente Gay Rossi, l’eroe incontrastato, (quasi) senza macchia e senza paura interpretato da un validissimo Robison Stévenin ed il colonnello Raoul Duplan (Oliver Gourmet), emblema di un machiavellismo riveduto e corretto a propria immagine e somiglianza, stiano a rappresentare nient’altro che due personaggi archetipali, due diverse interpretazioni sul modo di tenere a freno un popolo sottomesso, ma d’altra parte, per ammissione dello stesso regista, le stesse sequenze relative a “Mon Colonel” acquistano un valore prettamente universale e vanno viste come un vero e proprio simbolo di tutte le guerre di liberazione, di ogni bandiera e di ogni colore, da quella della resistenza francese contro i tedeschi fino a quella degli afgani contro gli aggressori russi.
L’esposizione dei fatti si avvale di un linguaggio asciutto ed immediato, senza concessione ad alcun tipo di spettacolarizzazione, ma cercando sempre di mantenere viva e vegeta l’attenzione dello spettatore e portandolo seguire la vicenda attraverso gli occhi del giovane protagonista, in un vero e proprio viaggio di catarsi e maturazione attraverso l’inferno delle torture e della repressione al di fuori d’ogni regola.
Lo stile ha un carattere semidocumentaristico ed il bianconero, che predomina lungo tutto l’arco del film relativamente alle numerosissime sequenze in flashback, appare a prima vista scarno e disadorno ma nel contempo pulito ed essenziale e realmente efficace rispetto allo scopo del film. Ovviamente la scelta effettuata in favore del monocromatismo è determinata dall’esigenza di offrire una maggiore compenetrazione con l’epoca dei fatti. E d’altra parte l’immaginario collettivo del popolo francese, a detta dello stesso autore, anche in virtù dei cinegiornali d’epoca tende a visualizzare la guerra d’Algeria in sfumature di bianco, nero e grigio, privi di ogni altro tipo di colore. E dal momento che la pellicola si snoda alternativamente in due storie ambientate rispettivamente nel 1956 in Algeria e nel 1993 in Francia, tale scelta stilistica, relativa ovviamente soltanto al primo periodo, consente innumerevoli alternanze temporali, anche di pochi fotogrammi, senza far perdere la bussola allo spettatore.
E fra le tante grida soffocate di dolore da un passato che nasconde forse qualche altro scheletro nell’armadio dei nostri cugini d’oltralpe, appare grottescamente obsoleta e primitiva l’affermazione sulla quale il colonnello Raoul Duplan basa tutti i presupposti per i suoi metodi di spietata repressione: “France without Algeria would not be France anymore.” Come dire: quando gli assunti della storia sono clamorosamente sbugiardati dai fatti!

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