Regia di Douglas Sirk vedi scheda film
"Inno di battaglia" è uno dei film peggiori che io abbia mai visto. Gli è sottesa un'ideologia politicamente corretta ante litteram che suona falsa lontano un miglio (nessuno che nomini, mai, i musi gialli o i comunisti) e un buonismo filo yankee che farebbe indignare perfino Veltroni ("Grazie" dice Hess a En per avergli fatto da interprete, "Grazie a voi, che ci aiutate" risponde trepidante la coreana). In più, inanella una serie di luoghi comuni da far impallidire i peggiori mestieranti del cinema: gli americani sono tutti bonaccioni, non c'è nessuna mela marcia - se qualcuno disubbidisce agli ordini lo fa soltanto per un eccesso di zelo - al più c'è qualche brontolone o qualche furbone (ma le bravate resteranno senza conseguenze); c'è il coreano (quante volte abbiamo visto un orientale di tal fatta?) saggio e filosofeggiante, dotato di lunga barba bianca d'ordinanza; c'è l'attrazione di Hess per la bella coreana, ma l'ufficiale rimane fedele alla mogliettina lontana; c'è un aviatore di colore che piange per avere bombardato un villaggio di civili con tanto di piccole vittime che fanno rivivere il dramma del colonnello; lo stesso soldato di colore intona a un certo punto un gospel ("Swing low sweet chariots, come for to carry me home"); gli aviatori nordcoreani sono tanto crudeli e stupidi quanto i nazisti dei film sulla seconda guerra mondiale o i sovietici dei film di Rambo: a un certo punto colgono di sorpresa la colonna militare di cui fanno parte Hess e l'interprete coreana e anziché mitragliare i soldati, lanciano una breve raffica contro una bambina che era rimasta attardata, per salvare la quale ci rimette le penne proprio la giovane En. Si potrebbe continuare ancora per ore, ma è arrivato il momento del gran finale, quando il Glory Glory Hallelujah di prammatica viene cantato a squarciagola, con tanto di tamburi e fanfare.
Si tratta di un film d'altri tempi, è vero, ma per dirsela tutta si tratta di un puro e semplice film di propaganda, che parla della guerra di Corea, ma s'inserisce a pieno titolo nel periodo della guerra fredda. Quello che però infastidisce di più è il bieco patriottismo che fa da substrato al film e, unito al buonismo d'accatto degli americani, contribuisce a formare una miscela melassosa e vomitevole.
Le note dei titoli di testa accennano vagamente alla canzone di John Brown (Glory Glory Hallelujah!), e già si marca male. L'introduzione al film è fatta da un vero colonnello dell'aviazione americana, che presenta questo esempio di specchiato eroismo, incarnato dal colonnello Dean Hess, un reduce della seconda guerra mondiale, tornato in patria con il rimorso di avere bombardato un orfanatrofio di Berlino nel quale sono morti 37 bambini tedeschi. Per espiare questa colpa, negli States Hess si fa prete, ed essendo protestante prende moglie. Sente però che gli manca la vocazione e, quando scoppia la guerra di Corea, parte volontario. In Corea avrà modo di espiare la sua colpa prendendosi cura degli orfanelli del posto, per i quali una solerte volontaria (Kashfi, che per altro sembra ben poco coreana) vuole costruire un istituto. Il colonnello porterà a compimento la propria missione militare e riceverà in Corea l'omaggio festante dei locali (grandi e piccini) riconoscenti e la visita della moglie che gli annuncia la prossima nascita di un erede.
Tutto.
Tecnicamente inappuntabile la regia, ma al servizio di un'idea di base penosa e pericolosa.
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