Regia di Don Siegel vedi scheda film
Per la seconda volta in carriera, a quasi dieci anni dalla prima, Siegel si cimentava nel film di guerra (sfortunatamente per lui nello stesso anno di The Longest Day) e si confermava regista solidissimo: classico, statico; si muove solo quando serve ma quando lo fa, lo fa con una decisione, e pur non si esplicita allo spettatore. Non se la tira, insomma, ma sa bene quel che fa, e crea con modestia composizioni di bellezza pittorica.
Comunque Hell Is for Heroes non è tanto film sulla guerra, ma film nella guerra, perché il vero soggetto è il personaggio del soldato Reese. Unico, specialmente per i tempi, la cui caratterizzazione, si ha il sospetto, sia più merito di McQueen che della pur buonissima sceneggiatura. Viene presentato come un duro quasi da spaghetti western, e si accenna al suo passato da sergente di alto rango poi degradato; da lì in poi sta quasi tutto agli occhi di McQueen, che tanto ricordano quelli di Tom Hardy nella recente impresa di Bronson, e ne condividono la stessa ossessiva, morbosa follia, pronta ad esplodere in ogni momento.
A parte l'insolita, sorprendente profondità psicologica del personaggio, legata alla guerra più di quanto non abbia fatto intendere in precedenza e forse anche usata per descriverla, ci sono altri elementi sfruttati tuttora dai film di guerra. Uno è quello della storia sul gruppetto di soldati, caratterizzati individualmente e analizzati in relazione gli uni agli altri: non molto originale, a dirla tutta, ma ben gestito; l'altro è quella della sfida impossibile degli eroi contro i nemici in enorme sovrannumero. Viene trattata con grande gusto (e se il recentissimo Fury avesse dato un'occhiata, non gli avrebbe nociuto): non viene esposta troppo ed è lasciata nei limiti del verosimile.
Ottima fotografia del poco conosciuto Lipstein (fotografo anche per Aldrich, Sturges e Cukor); le musiche di Rosenman sono meno datate di quanto si potrebbe temere, e tutto il cast (Coburn, tra gli altri) funziona.
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