Regia di Steven Shainberg vedi scheda film
Un passaggio. Una trasformazione. Quella di Diane Arbus da madre di famiglia&moglie in artista. Fotografa, per la precisione. Nell’America degli anni cinquanta l’autonomia della donna è ancora molto limitata. Sono i ruoli che la società le impone ad avere importanza. Diane, infatti, aiuta il marito (fotografo) nella sua attività. Niente di speciale, cambia i rullini, veste le modelle, sistema le macchine fotografiche. Figlia di genitori ricchi, Diane ha messo da parte interessi&progetti per badare ai propri figli ed assistere il marito nel suo lavoro.
La fotografia è ancora finzione, commercio, falsificazione della realtà a scopi commerciali. La fotografia è pubblicità. Quella delle pellicce della famiglia di Diane.
Il film è dichiaratamente una biografia immaginaria di questa donna, non ci mettiamo molto a capirne il perché.
La svolta narrativa (ed esistenziale per Diane) arriva quando nel palazzo dove vive viene ad abitare un nuovo inquilino. Mobili strani e misteriosi portati su per le scale, lo sguardo di Diane che li segue e poi un uomo mascherato. Mistero che attrae, la donna inizia ad interessarsi al nuovo venuto. L’unico contatto fino adesso è stato visivo, Diane su un balcone e l’uomo mascherato per strada. I loro occhi si sono incontrati.
La musica che arriva dal condotto dell’aria, una matassa di peli nelle tubature, tutto questo porta Diane a prendere coraggio, tirare fuori la vecchia macchina fotografica e salire dall’uomo per scoprire chi egli sia.
La conoscenza di Lionel (questo il nome dell’uomo) aprirà a Diane tutto un nuovo mondo. Un’apertura verso pulsioni e piaceri oscuri, uomini&donne deformi, nani&travestiti, un’umanità costretta a nascondersi dal cosiddetto mondo normale. Lo stesso Lionel è un freak, colpito da una strana malattia, l’uomo è completamente ricoperto di peli.
Tra i due nascerà un’amicizia che poi sfocerà nell’amore, un legame capace di rimettere in discussione tutte le certezze della donna e a spingerla a trasformarsi in una fotografa che attraverso il suo mezzo espressivo riuscirà a dare nuova luce e direzione alla propria vita.
Un passaggio, una trasformazione.
La fotografia diventa ricerca, provocazione, rottura degli schemi.
Saranno infatti proprio i freak i principali soggetti delle foto di Diane. E scorci architettonici, nuove angolazioni, visionarietà.
Capiamo che la Diane madre&moglie è solo una facciata, in lei scorrono correnti nascoste che mano a mano verranno alla luce. Esibizionismo, voyeurismo, un pizzico di sadomasochismo, poi canne&sigarette e l’emancipazione è portata a termine. Lionel, che avendo fatto di necessità virtù, si era buttato nel commercio delle parrucche regalerà all’amata una pelliccia fatta con il proprio pelo. La trasformazione è completata, la vita borghese buttata alle spalle, Diane è ora libera di fare quello che vuole.
Purtroppo in alcuni momenti, come quello della pelliccia, il film cade nel ridicolo, quello involontario, la cosa peggiore di tutte. Già il make-up di Robert Downey jr. (che interpreta Lionel) lascia molto perplessi. La sua somiglianza con Chewbecca è qualcosa che non si può far finta di non notare. L’immagine dell’amico di Han Solo è sempre lì in un angolo della mente. E appena l’accostamento supera le tue barrire mentali per dare credito a quanto stai vedendo, ti viene da ridere. E iniziano i casini. Inizi a domandarti se il film sia credibile o meno, se non sia solo una grossa baracconata. In fin dei conti l’anticonformismo mostrato è solo facciata, è ribellione risaputa, è presa di coscienza ammuffita. La Kidman (che cerca di dare spessore e intimità al suo personaggio, riuscendoci anche abbastanza bene) perché è stata scelta? Per il suo interesse nei confronti del personaggio o per il suo nome? Alla conferenza stampa dopo la proiezione del film le risposte arrivano da sole. Il regista, in tre quarti d’ora di domande, parla per circa due minuti e neanche interrogato. Lo spazio è tutto per lei, Nicole, la diva.
E in quest’ottica allora anche le scene di nudo che aprono e chiudono il film possono avere varie interpretazioni. Forse il denudamento del personaggio significa lo spogliarsi da parte di Diane di tutte le imposizioni sociali, culturali e mentali di cui era schiava. L’apertura quindi verso un nuovo mondo, il desiderio di guardare finalmente le cose da un altro punto di vista, un’ottica più vera e personale. O forse, più semplicemente, far vedere il culo della Kidman era un buon modo per guadagnarsi qualche spettatore in più. L’eccessivo didascalismo, la prevedibilità della storia, l’ostentato romanticismo mettono costantemente in dubbio l’onestà degli intenti. Steven Shainberg, il regista, mette in scena la storia rifacendosi palesemente a David Lynch. Ad un livello narrativo (ma anche visivo) la trovata del freak (e di tutta la sua allegra comitiva, compresi i nani canterini) richiama troppo la visionarietà del regista di Elephant man mentre da un punto di vista filmico, l’uso dei colori e l’onirismo degli interni (il palazzo, le scale, l’appartamento di Lionel) sono difficilmente scollegabili da tutto il lavoro compiuto da Lynch sull’immagine. La sinossi del film quindi regalerebbe molti spunti di riflessione (la figura della donna negli anni cinquanta, il valore dell’immagine, il senso della fotografia) ma tutto rimane sulla carta, perché la realizzazione del film (a parte un eclettismo visivo che può anche interessare) rimane all’interno degli schemi narrativi più ovvi.
A volte, come in questo caso, troppa immaginazione può giocare veramente brutti scherzi.
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