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Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus

Regia di Steven Shainberg vedi scheda film

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La recensione su Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus

di amandagriss
8 stelle

Fur  è la biografia immaginaria di una donna, Diane Arbus che il regista di Secretary omaggia attribuendole un particolare percorso interiore culminato in un incontro per lei fondamentale, che la condussero, ad un certo punto della vita, a firmare la sua singolare opera, oggi applauditissima nel mondo: ritratti fotografici di persone definite 'freaks', ovvero individui fuori del comune per le loro scelte di vita (nudisti, travestiti) o perché recanti malformazioni o difetti congeniti fisici. Scatti suggeriti dal bisogno di mostrare il lato ‘oscuro’, ‘malato’, 'inguardabile' delle cose, la ‘diversità’, l'’anormalità’ e tutto ciò che 'offende'  la morale pubblica, che la società (siamo negli anni cinquanta) considerava allora (e ancora oggi) imbarazzante, spiacevole, scioccante. Non per stupida banale trasgressione, fine a se stessa, ma per far emergere, attraverso l’esposizione senza filtri di immagini potentissime nella loro scarnificata sostanzialità, l’essenza di questi particolari individui, che sia essa il rifiuto di una mentalità omologata o semplicemente la loro anima, ferita, spaventata, indifesa, umiliata, prigioniera di un corpo problematicamente ingombrante ma pur sempre il proprio unico corpo. Personalità colta e sensibile, Diane entrò nelle vite e nel cuore di questi ‘ultimi della terra’ - persone che finirono per scegliere, tutte, di condurre un’esistenza ai margini, insieme ai propri simili o in totale solitudine - riuscendo a restituir loro quella dignità strappata e calpestata dall’abietta logica benpensante. Con Fur, Steven Shainberg firma una nuova opera estrema, di sicuro singolare, controversa, elegante e affascinante, portando così avanti il suo discorso/ossessione sul disagio del corpo e dello spirito di chi non si riconosce nella maggioranza della gente e, sapendosi diverso, soccombe al proprio destino fatto di dolore, solitudine e non per ultimo autolesionismo. Con il bellissimo Secretary e adesso Fur, il regista propone un'alternativa alle difficili esistenze di costoro, costruendo(gli)  un universo di situazioni in cui il giudizio ottuso e scellerato della massa perde il suo peso, in cui è possibile esserci, vivere, esibire la propria 'specialità' lontano dalla paura attanagliante di subire derisione, mortificazione e  rifiuto. Dove è possibile perfino essere amati. Parabole di vita dall’indubbio forte sapore, dolce in superficie ma amaro sul fondo; c'è gioia, speranza, leggerezza ma anche immensa tristezza e disperazione. Un ruolo importante nelle opere di questo interessante, audace, per nulla convenzionale autore/regista lo ricoprono gli ambienti in cui si muovono i personaggi (2 quelli principali, in entrambe le pellicole), caratterizzati da lunghe distanze, funzionali ad esprimere visivamente il cammino fisico e metaforico che l’uno (in Secretary, sono Maggie Gyllenhaal e James Spader, qui Nicole Kidman e Robert Downey  jr.) necessariamente percorre per avvicinarsi ed arrivare all'altro, trattasi di un corridoio (Secretary) o rampe di scale a collegare i diversi pianerottoli  di un condominio qualunque (Fur). La coraggiosa Nicole Kidman (Diane) e il bravo Robert Downey  jr. (il 'fur' del titolo - la sua ipertricosi congenita gli ricopre per intero il corpo di una folta spessa pelliccia rendendolo simile ad un animale selvatico -) si dividono la scena senza manie da prima donna, regalandoci prove sensibili, sentite, assai sofferte. Ottima occasione per far risplendere il loro talento di grandi interpreti. Fur  parla dei ‘diversi’ per parlare a tutti, per svelare quanto tutti noi, al di là delle differenze di superficie, siamo fondamentalmente uguali, tutti animati dallo stesso primario bisogno di essere accettati, di dare e ricevere amore.

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