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Asfalto nero

Regia di Helmut Käutner vedi scheda film

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La recensione su Asfalto nero

di Baliverna
8 stelle

Attorno alla costruzione di una strada e a una base alleata, ruota un'umanità condannata alla solitudine e all'infelicità. Il tutto sotto lo scudiscio degli americani.

Ecco un solido e cupo dramma sulla ricostruzione della Germania a direzione degli Alleati, girato da uno dei pochi registi veramente validi che operarono in terra teutonica dopo la guerra, cioè Helmut Käutner (molti altri erano scappati all'avvento del nazismo).
Il regista, anche co-sceneggiatore, mette in scena una tragedia che avviene quasi per caso e ed è innescata da una serie di sfortunate coincidenze, perché nessuno dei personaggi ne è l'ideatore o l'unico responsabile. Infatti parte della colpa sembra risiedere nel clima sociale e umano che si riscontra nel limitato luogo dove si svolge l'azione: una cittadina qualunque nei pressi di una base Alleata, dove la presenza degli americani risulta piuttosto ingombrante. Attorno ai militari, infatti, ruotano i locali notturni, il malaffare, e la prostituzione; quanto alla ricostruzione del Paese, loro ne sono i direttori e i supervisori. I tedeschi fanno solo gli operai. Per quanto riguarda la popolazione autoctona, il ritratto non è certo confortante: le ferite della guerra sono ancora doloranti, e lo strascico di egoismo, violenza e cinismo del conflitto è ancora percepibile. Ciò è visibile già dall'abbattimento gratuito del cane all'inizio. Ognuno pensa al proprio interesse, e gli importa poco degli altri o della comunità. Qualcuno di loro sogna un'improbabile fuga verso qualche paradiso immaginato. Quanto all'egoismo un po' di tutti, esso ricorda i film neorealisti di Vittorio De Sica, dove la guerra, oltre che la miseria, aveva lasciato anche persone fredde e ciniche.
Questa pellicola getta un'ombra sulla ricostruzione della Germania sotto il piede americano, e i molti cadaveri sotto la ghiaia fanno pensare ad una ricostruzione nazionale con gli scheletri sotto le fondamenta. Si può anzi dire che la "Ghiaia nera" del titolo originale (molto più pertinente di quello italiano) abbia un triplo senso: nera per il colore, per i camionisti che la trasportano in nero, e per ciò che nasconde sotto.
La pellicola subì l'assurda accusa di antisemitismo, la quale può essere spiegata solo con le ferite ancora aperte di molte persone, ebrei e non, che non potevano sentir parlare di fiammiferi senza gridare al fuoco. Infatti, la scena incriminata mostra un avventore della bettola dare del "porco ebreo" al gestore, ma la luce in cui l'atto viene presentato è indubbiamente negativa. L'oste ha infatti ancora tatuato sul braccio il famigerato numero, e le sofferenze ancora vive dentro; l'epiteto da parte dell'ubriacone appare come una vera cattiveria senza motivo. Per questo, e forse anche per la luce ambigua in cui vengono mostrati gli americani, la pellicola fu tagliata, e le fu cambiato il finale. Per fortuna, nel 2016 è stata restaurata e ripubblicata l'unica copia intatta, custodita dalla Fondazione Murnau.
In generale, lo definirei un buon film, ben scritto, diretto e interpretato, il cui unico limite - a livello mio personale - è il pessimismo assoluto e senza speranza che comunica, che di fatto infierisce sullo spettatore e sulla Repubblica Federale Tedesca di allora. Sappiamo poi che le cose non andarono così male; pertanto questa amarezza e rifiuto di credere nel futuro è da attribuire, secondo me, alla pesante eredità del nazismo e della guerra, ancora vivi nei creatori del film.

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