Regia di Dario Argento vedi scheda film
The Rothko Horror Picture Show
Se Cure di Kiyoshi Kurosawa risulta essere un abisso di senso, il film di Dario Argento potrebbe essere definito un inferno di senso.
Inferno formale e narrativo.
Il secondo capitolo della trilogia delle tre madri, lo si potrebbe etichettare come un lungometraggio stilisticamente e chimicamente proteiforme: parte con un'apparenza solida, prosegue liquefandosi e scendendo, ed infine brucia ed evapora, per salire o, comunque, disperdersi; un'opera, quindi, concettualmente trasmutante e inadattabile. Formalmente sconosciuta o irriconoscibile. Daltonica.
Una pellicola delirante ed insensata.
Ritornando al paragone iniziale, e per dare una direzione alle varie definizioni precedenti, in particolar modo a quelle evidenziate col grassetto, un inferno di forme e di segni. Forse, un inferno-disegni, poiché esso risulta essere, in un certo qual modo, un film rothkiano e fontaniano, o, meglio, un horror rothkiano e fontaniano, di conseguenza un "pittorico" film dell'orrore.
Un Rothko di senso, appunto.
Un Fontana dissenso, dis-appunto.
Inferno è, anche per tutto ciò elencato sopra, un insondabile "film-origine", anche per ciò che fa dell'uso del mezzo cinematografico. Film-principio e, quindi, inevitabilmente e parossisticamente, un "film-morte" e, ancor più correttamente, soprattutto da un punto di vista teorico, un film non-morto o già-morto, ovvero, consequenzialmente, un "film resuscitato", riesumato, nonché ineluttabilmente e incontrovertibilmente vivo. Un film vivente. Un film che intende profanarsi e profanare il cinema e il suo potenziale. Insomma, un filmico esperimento cerimoniale; un rito cinematografico che segue una logica arcaica; che segue delle logiche mistificanti per lo spettatore; che mistifica la comprensione spettatoriale. Inferno ha un linguaggio cinematografico esoterico e alchemico. È "alchimia dell'immagine". Una pellicola che, di conseguenza, non può essere descritta o, meglio, che non può essere raccontata. Ed è anche in tutto ciò che sta la sua incredibile ed inaspettata grandezza.
Un lungometraggio, insomma, anti-narrativo. Anzi, (im)precisamente, lo si potrebbe definire narrativamente liquefatto, esploso, infranto. Un'opera, a conti fatti, ineguagliabilmente strana, aliena, misteriosa e complessa, sia da un punto di vista filmico che concettuale.
Un film concettualmente iniziatico.
Un lavoro cinematograficamente "indiziatico".
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L'étrange couleur des lacrimarum de ton corps.
Inferno risulta essere, in un certo qua modo, un lavoro proto-lynchiano.
Un impossibile ed inspiegabile cortocircuito spaziale tra Suspiria e Shining; di quest'ultimo, Inferno ne risulterebbe pure una sorta di controcampo, e, di riflesso, il film di Kubrick è come se, invece, risultasse l'anticamera d(ell)'Inferno.
Un irripetibile fusione alchemica tra Hitchcock e Kafka. È l'horror di Argento più iconico e surrealista; più fantasioso ed immaginifico. Quello (mai) più sentito e genuino; quello più artigianale e poetico.
È un film dell'orrore caldo e sciolto, rotto e frantumato, irragionevole e misterico, imprevedibile ed imprevisto, fuso e fumante. Dionisiaco.
Come fosse una sorta di proiezione magica.
Inferno è un capolavoro inopportuno.
Un film libero e fuori di sé.
O, forse, dentro di sé.
Discensionalmente libero.
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