Regia di Rod Lurie vedi scheda film
C'è la politica americana alla base di questo film complesso ed articolato, forse non del tutto comprensibile agli italiani quando uscì nelle sale e forse solo parzialmente accessibile dieci anni dopo la sua uscita. Resta arduo, almeno per noi, capire certi meccanismi interni al governo americano, cavillosi ed oscuri anche a raffinati politologi, ma il fascino di certe operazioni (penso soprattutto ad alcuni serial americani medici, o anche West Wing) sta anche nel linguaggio enigmatico e misterioso con cui si entra nella narrazione.
Qui i protagonisti sono una brillante vicepresidente in pectore, un gagliardo presidente, un arcigno avversario politico della donna e uno stuolo di altri addetti ai lavori (un governatore, un gran cerimoniere, uno stagista…) che rappresentano le varie facce che può assumere il potere o la mancanza di potere di fronte a situazioni imbarazzanti e delicate (uno scandalo sessuale). Film che si presenta ambiguissimo, in cui non si sa mai a chi e a cosa credere, non riesce tuttavia ad essere insinuante e sfuggente fino in fondo come vorrebbe essere, nonostante la materia incandescente ed una serie di elementi (l’influenza dei media, specie televisione, stampa e l’ancora acerbo Internet; la ragion di Stato e il senso dello Stato) evidentemente sfiziosi.
Ha un buco di sceneggiatura nel finale che si risolve solo apparentemente con un’ellissi misteriosa e che rimane un’occasione mancata per delineare meglio le personalità dei tre protagonisti. Resta un buon legal thriller ambientato quasi esclusivamente nelle stanze dei bottoni (al massimo in un ristorante chic o in un cimitero di guerra) in cui le cose migliori sono gli attori. L’ottima Joan Allen meritò una nomination all’Oscar (ma era l’anno di Julia Erin Brockovich Roberts) così come un sorprendente Jeff Bridges (che ebbe la peggio sul Benicio Del Toro di Traffic), ma non è da meno un irriconoscibile Gary Oldman in un ruolo che gli è congegnale (ignorato, come di regola, dai membri dell’Academy).
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