Regia di Claude Chabrol vedi scheda film
“Voglio affondare chi si crede inaffondabile”. Arduo il compito del pubblico ministero, Jeanne Charmant Killmann. Combattere la corruzione senza paura, per una sorta di missione, dettata da una religione “etica”.
Chabrol, come sempre straordinario, porta sul grande schermo il suo rigore assoluto, per mezzo di una donna, che anche nella sua sfera privata non esita a portare quel senso di giustizia e legalità atti a creare non pochi problemi al suo stesso matrimonio. Jeanne, pubblico ministero, donna, alla fine si troverà da sola, sia nella sua vita privata che nella sua avventura professionale.
Il film di Chabrol ha un valore altissimo, uno fra tutti, quello di parlare di buona parte dei Paesi europei, e non solo, che oggi vedono la corruzione amministrare, gestire, corrodere ogni forma di potere. Si tratta di un cinema che non fa distinzione fra stile e contenuto, obbedendo all’unica legge, quella della sinteticità e dell’essenzialità, che ormai appartiene solo a pochi. Il suo sguardo sulla realtà è assolutamente gelido e non affatto consolatorio, privo di quella speranza accomodante di cui ormai la nostra cultura è un ottimo esempio.
L’utilizzo fino all’eccesso di ogni sfumatura delle singole psicologie, con i loro pensieri, azioni e finanche sguardi, sfociano nelle assurde conclusioni per cui ogni attore-spettatore, abbandonando il ‘set’, si lascia al “che se la sbrighino da se”: quello stesso pensiero del giudice implacabile e aggressivo, nelle cui intenzioni iniziali c’era il fare pulizia nella società di tutti quegli imprenditori e politici corrotti.
E’ chiaro che un cineasta come Chabrol ha il “potere” di contraddire la “commedia”. Lo fa per mezzo di un’attrice capace di imbruttirsi a causa di un lavoro che rende sporche non solo le mani, ma la mente e, soprattutto il cuore. Isabelle Huppert vive in un mondo sporco, reso tale anche dalla straordinaria fotografia che sgrana, opacizza tutto perché vederci chiaro in questioni come queste è veramente difficile, se non impossibile: dalla Fracnia all’Italia, passando anche dall’America.
Tutto è ridotto al minimo, anche i movimenti di macchina, se all’inizio sono utilizzati lunghi piani sequenza, hanno solo uno scopo: farci addentare fin nel midollo dell’ingiustizia, tanto da farci avvertire le allergie, allo stesso modo di chi avverte, nel film, il prurito dell’ingiustizia, fino sotto la pelle (e le palle: a tal proposito si ricordi della scena nell’ascensore).
Molti ancora si chiedono del perché il regista settantacinquenne abbia voluto questo film. Noi no, semplicemente perché siamo consapevoli che un film come questo può solo far pensare a noi stessi e non agli altri, trattandosi di singoli casi che come quel singolo albero, nascondono dietro una foresta molto fitta.
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