Regia di M. Night Shyamalan vedi scheda film
Come tutti i film di Shyamalan, anche questo “Lady in the water” è un film sul quale dare un giudizio alla prima visione risulterebbe una pratica fuori luogo. Il cinema del regista indiano va rivisto, analizzato: la sua dovizia di particolari è per quelli che scoprono subito l’assassino in ogni film giallo, o che sulla “Settimana enigmistica” trovano le famose “7 differenze” in un istante. Chi ha un metabolismo visivo lento deve riguardare i film di Shyamalan per dire realmente se il prodotto vale o meno. Così come per il suo film d’esordio “Il sesto senso”, il primo acchito con l’ultima fatica del regista dal nome più impronunciabile di Hollywood è difficile e, per molti versi, deludente. “Lady in the water”, visto una o più volte, non ha comunque la visionarietà, l’alone fantasy e la pura magia tipica delle altre opere del regista. Perfino la dimensione soprannaturale, quella in cui il film intendeva distinguersi (più di tutti i precedenti), sembra essere meno marcata e meno convincente.
Le interpretazioni della sempre più brava Dallas Bryce Howard (nel ruolo di Story, la ninfa delle acque) e di Paul Giamatti (che interpreta Cleveland, un goffo factotum di un condominio di Philadelphia) sono davvero valide. Un po’ meno quella dello stesso Shyamalan, che hitchcockianamente continua nei suoi camei, questa volta, forse, esagerando: Shyamalan, già sceneggiatore, produttore e regista del film, fa anche il co-protagonista, mansione che, per la verità, gli si addice poco.
In ogni caso, il film è una fiaba, e come tale va preso, ignorando i nonsense ed alcune facilonerie di maniera. La dimensione fiabesca si evince dal fatto che tutti i personaggi del condominio, personaggi “qualunque” laddove non “inutili” nella realtà di tutti i giorni (il gruppo di latinoamericane aracnofobiche o il bodybuilder sui generis) diventino, all’interno della dimensione da cui proviene Story, delle pedine fondamentali, rappresentando un contraltare emblematico tra questo e quel mondo: non stupide ochette, ma “sodalizio”, non fanatico ad oltranza dei bicipiti, bensì l’unico a saper ipnotizzare mostruose creature del bosco.
Fosse stato il primo film di Shyamalan, la critica lo avrebbe accettato unanimemente, forse considerandolo un regista-favolista, uno capace di fare film per ragazzini, ricchi di mistero e magia: tutto ciò considerate le ambientazioni e la sceneggiatura particolarmente poetica.
Ma visto che Shyamalan ha sorpreso e deliziato il mondo con favole fantasy (“Unbreakable – Il predestinato” o “Signs”) spesso vicine all’horror (“Il sesto senso”), ma comunque sempre complessi cubi di Rubik capaci di risolversi nel finale (“The Village” in primis), da lui ci si aspettava qualcosa in più. Soprattutto dal finale del film, in cui ogni fan del regista indiano si attendeva il flashback risolutivo o la svolta che cambia volto all’intera storia. Tutto ciò non c’è stato e c’è già chi si sente tradito.
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