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Vivi con rabbia

Regia di Irving Lerner vedi scheda film

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La recensione su Vivi con rabbia

di (spopola) 1726792
6 stelle

“Studs Lonigan” (in italiano “La vita di Studs Lonigan”) è una straordinaria trilogia di romanzi che James Thomas Farrell (1904-1979) pubblicò fra il 1932 e il 1935, che non ebbe mai una larga risonanza fra il pubblico dei lettori, ma che riscosse invece un notevolissimo apprezzamento da parte della critica per la raffinata qualità della scrittura.
Agli inizi del gli anni sessanta, complice il produttore Philip Yordan, grande estimatore dell’opera, che si assunse anche l’onere di realizzare una per la verità troppo condensata e prolissa sceneggiatura, zeppa di compromessi narrativi necessari per riuscire a contenere in poco più di un’ora e mezzo di immagini tutta la complessa densità delle parole utilizzate per raccontare l’irrequieta vita dell’irlandese William Lonigan in un quartiere popolare del South Side di Chicago negli anni ’20, il regista Irvin Lerner ne realizzò la versione cinematografica, distribuita appunto in Italia con il titolo di Vivi con rabbia.
Niente in questa trasposizione è all’altezza dei romanzi di riferimento, se non l’esaltante fotografia in bianco e nero (che accentua però ulteriormente l’inclinazione al calligrafismo del regista) e la competente ricostruzione d’epoca di Jack Poplin che ci offre una efficace definizione scenografica visivamente convincente della comunità irlandese che viveva nella Chicago di quei “ruggenti anni 20”, come fu definito quel periodo nel titolo di un’altra pellicola fatta di pasta ben diversa e di più acre consistenza, che portava la firma di Raoul Walsh (The Roaring Twenties – 1939).
Il problema principale comunque non è nella eccessiva concentrazione dei fatti (il proibizionismo, il crollo della borsa, la disoccupazione e la ricerca affannosa di un posto di lavoro) che ne fa quasi un “bignamino” storicizzato vicino al “déjà vu”, quanto nella eccessiva arbitrarietà che ne altera notevolmente il senso, non solo semplificando e schematizzando, ma anche prendendosi delle libertà che ne modificano il percorso (particolarmente criticabile il “posticcio lieto fine” che ribalta la prospettiva dolorosa del “narrato”, dove invece la conclusione era tutt’altro che positivista) e nel troppo estetizzante formalismo della regia che mal si coniuga con la corposa irruenza un po’ anarcoide del protagonista (anche se gli accomodamenti conclusivi la renderanno molto più conformizzata), che preferisce giocare “la sua vita al massimo”, come si sul dire, fra sbronze, partite di biliardo e sterili quanto rabbiose ribellioni che lo porteranno perfino in carcere, poco propenso com’è a rispettare le “regole” e i predicozzi genitoriali dentro una società che lentamente sta andando alla deriva. Il riscatto finale - grazie all’amore per la sua donna e all’attesa trepidante per la nascita del bimbo che hanno concepito insieme, rappresenta così un posticcio elemento “rassicurante” che contraddice l’amara costruzione di una parabola “a perdere” come quella immaginata appunto da Farrell e tutto diventa allora qui meno significativo e pungente, trasformandosi in una storiella dalla scontata “morale” un po’ troppo banalizzata.
Proprio per queste – per alcuni versi - inconcepibili scelte (ma dobbiamo considerare l’epoca e il periodo in cui l’opera ha visto la luce per immaginare come era difficile imporre – e imporsi – una scelta abbastanza controcorrente conservando un finale drammatico che avrebbe fatto uscire dalla sala con l’amaro in bocca gli spettatori) è di gran lunga superiore la prima parte, più problematicamente inquieta e nervosa, rispetto alla seconda, fiacca e sbrigativa.
Un altro neo che pesa a sfavore del risultato, è poi quello relativo agli attori, e non perché non ci sono nomi significativi a illuminare il cast (sappiamo quanti piccoli gioiellini nascosti si nascondono anche fra i personaggi di “secondo piano” della cinematografia americana), ma per le inadeguatezze di interpretazioni poco pertinenti, che non riguardano tanto la singola prestazione, ma che sono invece un problema generalizzabile, tanto che sorge forte il dubbio che anche in questo caso il difetto stia nel manico, e che sia proprio Lerner a non aver prestato la debita attenzione o cura nel dirigerli, tutto concentrato com’era a cercare di sublimare il risultato nella “bellezza delle atmosfere”, senza molto preoccuparsi del resto, così che ciascuno di loro sembra come abbandonato a se stesso, volenteroso quanto si vuole, ma privo di nerbo e di amalgama.

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