Regia di Steven Spielberg vedi scheda film
A Spielberg riesce la magia di eguagliare il primo capitolo della saga, replicandone la formula perfetta di avventura, mistero, azione, umorismo ed esotismo ed impreziosendola approfondendo il travagliato rapporto tra Indiana ed il padre, un brillantissimo Sean Connery.
VOTO: 8,25 su 10
Durante la mia infanzia questo terzo capitolo (l'ultimo del progetto originario) era IL film di Indiana Jones per antonomasia. Gli altri due li avrei rivisti più avanti, mentre L'Ultima Crociata, per ragioni anagrafiche - avevo otto anni quando uscì - è stata una delle visioni home video più ricorrenti e coinvolgenti del mio primissimo approccio col cinema, e di conseguenza figura tra i titoli maggiormente responsabili dello sviluppo della mia passione cinefila.
Dopo le (in parte fondate) critiche a Indiana Jones e il Tempio Maledetto, Spielberg e Lucas optano per un ritorno allo spirito de I Predatori dell'Arca perduta, ritrovando la formula magica che aveva permesso di fondere, in maniera armonica e micidiale, mistero, azione, suspense, ironia, esotismo e fantasia. Spielberg e Lucas vanno sul sicuro imperniando la trama sulla ricerca del Sacro Graal, oggetto già ben noto al pubblico e avvolto in aura mitica, e riproponendo alcuni temi che avevano funzionato ne I Predatori: l'ambientazione desertica e mediorientale nel finale (molti i punti in comune tra lo scontro col carro armato e l'inseguimento del camion nel primo film), il ritorno dei personaggi di Marcus Brody e Sallah e dei sempre efficaci nazisti come antagonisti (tra l'altro con un certo grado di verosimiglianza storica, per chi conosce la figura dello storico e ricercatore nazionalsocialista Otto Rahn, che focalizzò il suo interesse proprio sul Graal).
Come usuale, il film inizia con un prologo, che stavolta ci trasporta di parecchio indietro nel tempo, nello Utah del 1912, a seguire l'adolescente Indy ( col volto del compianto River Phoenix) in una indiavolata avventura per sottrarre a sinistri trafficanti la Croce di Coronado. Durante un rocambolesco inseguimento al di sopra ed all'interno di un treno-circo in corsa, veniamo a scoprire l'origine di alcune caratteristiche salienti del nostro protagonista: la fobia dei serpenti, l'adozione della fidata frusta come arma d'elezione e pure dell'iconico cappello, mutuato dal suo primo antagonista. Nel prologo facciamo pure il primo incontro (pur senza vederlo in faccia), con un altro membro della famiglia Jones: il papà Henry Jones Senior, che nel 1938 ha il volto di Sean Connery. Scelta non casuale, dato che James Bond è considerato in un certo senso il padre putativo di Indiana Jones, che dalla spia inglese – di cui Spielberg sognava di dirigere un episodio - ha mutuato più di una caratteristica.
Con un attore di questa caratura a disposizione, uno dei punti focali della pellicola (direi il principale) diventa la relazione travagliata tra l'archeologo ed il padre, uno stimato professore di letteratura medioevale che per decenni si è dedicato proprio allo studio del Sacro Graal. Il genitore è evidentemente stato un modello di riferimento per la sua futura carriera, ma pure un uomo che, immerso negli studi, ha sviluppato una relazione distaccata col figlio, con cui non c'è mai stato molto dialogo e che si ostina a chiamare paternalisticamente “Junior”: l'avventura alla ricerca della Coppa di Gesù sarà l'occasione di riavvicinamento tra le due generazioni.
Di nuovo come nel primo capitolo (ed a differenza del secondo) a Spielberg riesce la magia di non far calare mai il ritmo serrato ed implacabile di un'avventura che ci trasporta dall'America a Venezia, ove si scende in una cripta brulicante di topi e si fugge a bordo di motoscafi nella laguna, poi in un tetro castello medioevale al confine tra Austria e Germania, e via in sidecar fino a Berlino, ove Indiana incontra persino Adolf Hitler tra i roghi dei libri, e via in dirigibile Zeppelin fino a Iskenderun in Turchia, nei cui pressi si nasconde l'antica chiesa rupestre che occulta la coppa (che ormai tutti sanno essere “interpretata” da El Khasneh al Faroun di Petra). Ed il finale nel tempio rupestre, con le tre prove da superare e l'incontro col centenario cavaliere crociato: una sequenza che mi impressionava tantissimo da bambino, è sempre molto efficace anche rivista con occhi più smaliziati. Spielberg sceglie, come al solito nella saga, di privilegiare la spettacolarità sulla verosimiglianza (il petrolio a Venezia?), ma evita sbruffonate risibili come la caduta e scivolata dall'aereo su un ghiacciaio appesi ad un canotto che avevamo visto all'inizio del Tempio Maledetto.
L'Indiana Jones di Harrison Ford affascina con la sua competenza culturale non prendendosi troppo sul serio (“la X non indica mai il punto dove scavare!”), seduce le belle donne ma ne subisce gli inganni e non si tira indietro quando c'è da sporcarsi le mani e gonfiare i muscoli nell'azione indiavolata. Proprio l'ironia delle schermaglie con il padre e l'emersione di una certa vulnerabilità di Jones, sono elementi che contraddistingue questo terzo capitolo sia dai toni più duri e dark del secondo, sia dall'azione ed avventura pura del primo. Seppur l'ironia sia stata sempre un elemento fondamentale della saga, qui prende felicemente il sopravvento, in gran parte grazie alla bravura di Sean Connery. Inoltre, nei precedenti capitoli non avevamo avuto accesso al lato più umano e vulnerabile dell'archeologo, che qui vediamo anche come figlio, a tratti insofferente a tratti amorevole verso una figura paterna che avrebbe voluto sentire più vicina. Non a caso l'ardua prova finale viene affrontata, più che per la brama di mettere le mani sul mistico artefatto, per sfruttare i suoi poteri taumaturgici per salvare la vita dell'amato/contestato “Senior”.
Se tra i limiti del Tempio Maledetto pesava la debolezza dei comprimari, qui spicca il fondamentale contributo di Sean Connery, in perfetta armonia con Ford nel fornire un contrappunto umoristico brillante, ben intrecciato all'azione avventurosa in cui il compassato studioso si trova catapultato come un pesce fuor d'acqua: è irresistibile quando sgrida il figlio, che “non può essere stato così stupido da riportare il libretto qui”, o lo chiama fastidiosamente “Junior” o commenta ripetutamente con il laconico “è intollerabile!” ogni tentativo di farli secchi. Mentre la bionda - alla maniera hitchcockiana - dr. Elsa Schneider (Alison Doody), la prima e unica “Jones Girl” a stare (parzialmente) dalla parte dei cattivi è certamente una protagonista femminile più intrigante dell'urlante Willie del Tempio Maledetto, seppur la Marion di Karen Allen rimanga la migliore.
Per un bilancio finale della trilogia (perché il tardivo Teschio di Cristallo non merita considerazione e sarebbe stato più saggio lasciare che la saga si concludesse con la cavalcata verso il tramonto), concluderei quindi che nell'Ultima Crociata le dinamiche tra i personaggi e la recitazione sono al top della serie, superando I Predatori, che lo uguaglia in ritmo e lo supera per l'iconicità e la bellezza visiva di certe sequenze, per cui, aggiungendoci infine un pizzico di nostalgia per le passioni della mia infanzia che fa ancora pendere un poco il piatto per l'Ultima Crociata, posso infine decretare il pareggio tra primo e terzo capitolo.
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