Regia di Jonathan Dayton, Valerie Faris vedi scheda film
Ecco a voi la famiglia Hoover: madre affettuosa ma un po’ carente come casalinga, zio intellettuale e gay, tentato suicida per amore, padre col progetto di lanciare un manuale per vincenti in nove step, nonno sniffone e sporcaccione che prepara la nipotina per il numero coreografico da presentare alla finale di Little Miss Sunshine, competizione californiana di bellezza per bambine. E poi c’è il figlio quindicenne, che ha fatto voto di silenzio e considera tutti i suoi familiari una massa di falliti. Un florilegio di scoppiati come non se ne vedevano dagli anni ‘70. E infatti, ad accompagnare la piccola alla finale in un hotel californiano ci vanno su un furgone Wolkswagen, perché in aereo costerebbe troppo, e non ci nascondono nessuna delle loro debolezze e dipendenze, si prendono tutti i tempi morti che trovano (e non solo in senso figurato) e si ritrovano addosso come un boomerang il motivo per cui sono partiti, che, alla fine, come da copione, non è più così essenziale. Niente di nuovo ma tutto gira, ci scappa anche qualche risata, per lo più per gli effetti grotteschi, in sceneggiatura si avverte l’umanità dei personaggi ma anche la forzatura della costruzione di un gruppo familiare dalla bizzarra esemplarità. La ridicolizzazione del fanatismo (non solo statunitense) per la bellezza e il successo è un po’ facile e già vista, ma la naturalezza dei protagonisti compensa la prevedibilità del discorso: al programmatico ritmo rilassato, quasi sciatto, del viaggio fa da contraltare un finale che è un piccolo colpo di coda. Un inno alla normalità da recuperare, perché da vicino nessuno è normale. Di questi tempi, è già qualcosa.
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