Regia di Jonathan Dayton, Valerie Faris vedi scheda film
Una panciuta bambina vuole partecipare ad un concorso di bellezza infantile, e la famiglia la accompagna da Albuquerque a Los Angeles in uno scassatissimo furgoncino volkswagen. Questo sgangherato road-movie non attraversa un’America profonda o provinciale né tocca le grandi città, non ha reali riferimenti geografici perché è un viaggio del tutto interiore. Tutti i passeggeri del pulmino, così riluttante a stare in strada, sono persi nelle proprie ossessioni, sino a smarrire ogni punto di riferimento, sono prigionieri dell’ortus conclusus del loro sogno a costo dell’incomunicabilità. Ma quel viaggio demenziale finisce per farli scontrare con il cocente fallimento delle proprie prospettive e aspettative, ad ogni livello. E infine a rassegnarsi a trovare il coraggio di sorridere (o ballare), di sgravarsi del peso di un progetto irrealizzabile per porgere una mano, o trovare il modo di osservare serenamente la propria condizione, e condividerne il ridicolo con gli altri.
Né spaccato sociologico (la middle-class dei personaggi è sufficientemente allargata da comprendere anche intellettuali proustiani e filo-francesi, quasi eretici negli Usa), né pamphlet politico (c’è solo un breve accenno anti-Bush), questo ritratto sorridente di loser demenziali fa piazza pulita delle distinzioni tra perdenti e vincenti, così importanti nella società americana (e così puntualmente mutuate dalle culture occidentali), per offrire una fotografia di un’umanità disincantata e in crisi, che alla fine, quasi per gioco, capisce il senso della solidarietà e del divertimento. Nulla viene chiaramente messo sotto accusa, né una morale si fa largo con evidenza o retorica. Ma il sogno americano dell’affermazione personale, diversamente declinato dai singoli protagonisti, si frantuma nell’impossibilità di realizzarsi, lasciando sconcerto e delusione, eppure mantenendo intatta una certa simpatia collaborativa che l’accento posto sull’individuo inevitabilmente aliena e cancella.
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