Regia di Michael Winterbottom, Mat Whitecross vedi scheda film
L’11 Settembre 2001 è una data che, a detta di molti “ha cambiato la storia della civiltà occidentale”, per altri “ha cambiato solo alcune abitudini della famiglia Bush e i suoi incontri con i capi alla maniera di Saddam Hussein, Bin Laden che, da un giorno all’altro, sono diventati terroristi e fino al giorno prima gran compagni del presidente americano durante l’ora del thé”.
Tuttavia, da quella data, nel mondo s’è scatenato l’odio, che oggi vive il suo massimo exploit anche mediante la messa in scena di film che spettacolarizzano il dolore, o mediante articoli di opinionisti di tutto il mondo, pronti ad essere quanto più efferati possibile nella loro crudezza verbale, pur di rendere il nemico come l’omino del video game, da abbattere.
Anche questo documentario dei registi Winterbottom e Whitecross, vincitore dell’Orso d’Argento al Festival di Berlino 2006, e prodotto dalla Fandango, sembra porsi sulla stessa lunghezza d’onda, pur essendo ottime le intenzioni iniziali dalle quali muoveva: proprio mentre gli Stati Uniti subivano il più imponente attacco nella loro storia, in Pakistan la madre di Asif Iqbal trova una moglie per il figlio, residente in Inghilterra, e lo invita in patria per conoscerla. Asif chiama i suoi amici Ruhel, Shafiq e Monir, anche loro residenti in Gran Bretagna, per fargli da testimone alle nozze. I quattro amici si incontrano a Karachi e si recano presso la moschea, dove l’Iman li invita ad andare in Afghanistan, per dare una mano alla popolazione. Se all’inizio tale impresa appare ai ragazzi come un’avventura, giungendo a Kandahar, mentre le forze americane bombardano il territorio, con il proseguimento del loro viaggio per Kabul, la malattia li costringe a fermarsi. Sperano allora di poter far ritorno in Pakistan, ma da qui la loro avventura si trasforma in un incubo.
Il racconto, utilizzando una tecnica documentaristica, si avvale dell’uso di immagini di repertorio ed interviste ai protagonisti, alternate a sequenze ricostruite, ma interpretate dagli stessi interpreti reali della vicenda. Il difetto maggiore è proprio l’indecisione tra la strada documentaristica e la ben più riconoscibile finzione televisiva.
Nel film, c’è un eccessivo uso di immagini crude che, pur essendo molto simili a quelle viste attraverso i filmati per i quali sono incriminati diversi responsabili delle forze armate della prigione di Guantanamo, lasciano nello spettatore l’interrogativo di base sull’efficacia e la validità della scelta iniziale di realizzare un prodotto come questo. Cosa aggiunge questo documentario a quanto conoscevamo già sulle prigioni di Guantanamo, se non una maggiore dose di odio nei confronti di una civiltà che, a ritmi frenetici, si sta auto-distruggendo?
Giancarlo Visitilli
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