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Howling III

Regia di Philippe Mora vedi scheda film

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La recensione su Howling III

di scapigliato
8 stelle

Torna Philippe Mora e tornano i lupi mannari. A due anni dal suo folle capitolo, Mora torna sul luogo del delitto per continuare nella sua operazione borderline di continuum cinematografico. Non c’è più Christopher Lee e non c’è più nessun collegamento ormai con Karen White e l’originale di Joe Dante. Siamo prettamente in Australia, anche se l’azione parte dall’America e coinvolge pure il Presidente degli Stati Uniti. Uno scienziato, nipote di un altrettanto celebre scienziato che nel 1909 aveva ripreso l’uccisione apparentemente di un uomo vestito da lupo, ma che in realtà era un vero mutaforma, torna nei luoghi del nonno per saperne di più e dimostrare forse la presenza di una razza umana completamente nuova. Purtroppo dietro di lui c’è tutta una macchinazione militare. Dapprima si diffida della presenza di licantropi, e in seguito invece se ne vorrà tacere la presenza o piuttosto demonizzarla letteralmente grazie al consiglio e all’intervento vaticano del Papa. Ma più lo scienziato si addentra nelle sue ricerche, più si accorge che la popolazione di “marsupiali”, tali sono difatti i mutaforma australiani, è vasta e ha i suoi sentimenti e la sua vita. S’innamorerà pure di una donna russa e licantropa, protagonista di una bellissima trasformazione mannarica nel bel mezzo di una prova di ballo.
Il regista ripete gli stessi errori e gli stessi pregi del capitolo precedente. Da un lato arrabatta la narrazione utilizzando luoghi comuni e dialoghi telefonati, per non parlare degli attori che sono tutto fuorchè cinematografici, ma è un limite regolare nelle produzioni di serie B anni ’80 come quelle italiane che si giravano all’estero. Purtroppo George Lucas aveva fatto il danno sdoganando la Sci-Fi dalla serie B, dentro la quale c’erano veri e propri signori attori, trasformando il genere in un blockbuster. Ecco che così, al vero cinema di genere a low-budget e non di main-stream, restano solo le bricciole. Comunque sia, qualche caratterizzazione è azzeccata, come il pachidermico regista e le tre suore licantrope (che poi suore non sono). Va detto anche che è condotto ironicamente bene il gioco metagenerico sul cinema horror. Siamo infatti in presenza di un “film nel film”, sia perchè i due protagonisti fanno inizialmente parte di un film sui lupi mannari, tale “Shape-Shifter”, sia perchè i due vanno pure al cinema a vedere un film sui licantropi. Giochi questi che aiutano a inveritare la finzione attraverso il gioco di specchi e di rimandi.
La parte più azzeccata del film è ovviamente quella effettistica. Non tanto per la bellezza degli effetti speciali, vista la produzione, ma per come vegono usati. A parte il fatto che più gli effetti sono plastici e anche rozzi più è diverente il film e più è importante il significato atavico che la maschera riporta ad un livello di intelleggibilità, cosa che il digitale ha distrutto. Le trasformazioni sono davvero gustose e la palma d’oro alla migliore va a quella di Max Fairchild, il capo tribù pelato, che seppur legato al lettino del laboratorio sa trasformarsi e diventare pericoloso. É una mutazione sfrenata, borderline, anche grazie alla regia della scena che predilige il montaggio sincopato e la presenza assillante e infatuata dallo spettacolo lupesco dello scienziato che non vede il pericolo e resta lì a stuzzicare la sua cavia. Molto bella e disturbante è anche la scena del parto marsupiale. La protagonista partorisce il suo cucciolo che a poco a poco cerca la sacca e vi si infila come l’instinto vuole. Più animali che uomini, e forse proprio per questo più speciali e più veri.
La riflessione del film, se a un film di questa fattura gli si vuol dare una riflessione e a me sembra proprio di sì, è tutta incentrata sulla diversità. In particolar modo sulla preziosità della diversità e sulla malignità delle istituzioni politiche, religiose e militari, che invece tale diversità la vogliono escludere o demonizzare. Scena chiave del film è l’incontro tra la protagonista marsupiale e il suo amato “umano” nonchè padre del cucciolo che porta in grembo: i due si ritrovano giorni dopo il parto di lei, e la reazione di lui alla vista del cucciolo metà uomo e metà animale non dà segni di impressione e nulla. Non vede nella creatura un uomo-bestia bensì semplicemente suo figlio, o meglio ancora: semplicemente una creatura. Da qui capiamo che il film vuole andare in una direzione precisa e sovversiva proponendo l’accettazione anche della diversità più clamorosa. Così, lo scienziato e i suoi supporter liberano i “marsupiali” catturati dai militari e si rifugiano con loro nell’outback australiano dove vive anche un vecchio aborigeno che nasconde una personalità ferina. Qui, dopo una bella scena di werewolf-attack che fa il paio con quella notturna del film precedente, anche se qui è alla luce del sole, i marsupiali resteranno nascosti nella natura da cui erano arrivati. Dopo quindici anni, il governo americano chiude la sua lotta con i mostri, e anche il vaticano ritira le accuse di infernalità a quelle persone. Tornano tutti alla civiltà, ma quando la civiltà innescherà di nuovo l’istintività ferina, le trasformazioni torneranno a inquietare l’equilibrio allora trovato in natura. Detto questo, detto tutto.

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