Regia di Tsai Ming-liang vedi scheda film
Ormai Tsai Ming-Liang si riconosce lontano un miglio, un cinema che impone la sua presenza allo spettatore, il quale, più o meno attratto o accondiscendente, non rimane indifferente. La sua è una visione che trova una nuova strada e parla direttamente all'animo tramite il paradosso del rapporto staticità/forza cinetica, il primo termine riferito alle pure non-azioni che scorrono nel tempo, il secondo ovviamente al movimento fisico che sviluppa le immagini stesse nel tempo: così il suo cinema diventa metafisico nella concretezza del tempo e dello spazio delle sue ambientazioni, che allo stesso tempo sono ben presenti e difficilmente identificabili nel suo complesso, e il contrario dello sviluppo narrativo diventa l'azione dell'avviluppare i corpi con la loro finitezza e le loro passioni per mezzo di un'immagine che nasconde la propria magia dietro un velo di apparente povertà.
Tutto questo risalta in modo particolare in I Don't Want to Sleep Alone e non smentisce, senza però essere stagnante, la personalità del regista malesiano, già autore, tra l'altro, dei notevolissimi Vive l'amour, Il fiume e Il gusto dell'anguria. Il film è il suo primo girato a Kuala Lumpur, appunto in Malesia, dato che tutti gli altri li ha diretti a Taiwan, dove si è laureato, ed è stato commissionato per celebrare i duecentocinquant'anni dalla nascita di Wolfgang Amadeus Mozart. Pare incredibile e difatti la musica di Mozart sembrerebbe estranea alla desolazione dei suoi spazi e dei suoi personaggi, ma proprio gli sprazzi improvvisi di "magia" e di poesia che si respirano mettono in relazione il film con le note (anche se sporadiche e soffuse) del magnifico Flauto magico mozartiano (sempre in relazione al personaggio malato e relegato al letto interpretato da Lee Kang-Sheng, ancora un contrasto dinamico).
La scarna trama vede Hsiao-Kang (sempre Lee, attore feticcio di Tsai), un senzatetto cinese approdato a Kuala Lumpur e malmenato, accudito da Rawang (Norman Atun), ragazzo originario del Bangladesh che ha trovato alloggio in un edificio incompiuto di cemento e divide così il suo materasso con Hsiao-Kang. Rawang si infatua di lui, come pure un'altra ragazza che lavora in un bar (Chen Shiang-Chyi).
Le inquadrature immobili, che recepiscono materialità e restituiscono stati d'animo e delimitano uno spazio e un tempo immanenti e invadenti, con le loro profondità di campo, le sequenze con pochi stacchi essendo girate quasi del tutto in tempo reale, i volti spesso (ma non sempre) relegati a distanza, gli sporadici dialoghi diretti, le voci fuori campo che rimangono in secondo piano, i colori quasi assenti, gli edifici opprimenti, i movimenti quotidiani e funzionali e le solitudini siderali, sono il substrato denso che divide il bisogno di appagamento di libertà, di contatti, di affetto, di vicinanza a qualcuno che si ama. Sono anche il substrato in cui si apre per un attimo lo spiraglio della poesia (oltre che di un forte erotismo), messo in risalto proprio dal potere dell'arte e del cinema nella fattispecie: appunto la purezza delle migliori composizioni mozartiane, propulsive di libertà nell'asfissia delle pareti; i punti di vista distaccati e pudichi anche nei momenti più intensi; dettagli scenografici come il velo rosa che protegge lo spazio delimitato dal materasso, mentre Rawang assiste Hsiao-Kang; oppure la grande farfalla che si posa sulla spalla dello stesso Hsiao-Kang mentre pesca nel lago creatosi all'interno del palazzo; o ancora gli sguardi infiniti e intensi che cercano disperati di riavvicinare le distanze (come Rawang che piange dopo aver cercato di uccidere Hsiao-Kang per gelosia, presumo).
Il culmine d'immensa commozione però arriva alla fine e se non volete rovinarvelo smettete di leggere qui: silenzio assoluto, non disturbato né dai rumori di fondo della città né dalle canzoni commerciali, in uno spazio equoreo sospeso e lontano dal fumo che ammorba l'aria; dallo sfondo compare lentamente il materasso gallegiante con tutte e tre le figure principali abbracciate. Forse uno spiraglio di speranza genuino che trova almeno per un attimo una comunanza nelle relazioni umane (Tsai ha affermato, in un'intervista di Tony Rayns, di non credere nell'amore perpetuo) su cui si staglia una voce isolata femminile (senza accompagnamento orchestrale, con effetto ancor più astratto) che canta una versione del bellissimo tema principale di Luci della ribalta: anche qui sembra un fuori tema, ma il regista ha messo in risalto il comune denominatore del vagabondaggio tra i personaggi chapliniani, quelli del film che alla fine riescono a non dormire più da soli e la formazione di Mozart in giro per l'Europa.
Forse non era nelle intenzioni di Tsai, ma a me piace pensare che continueranno a dormire insieme ancora per molto tempo.
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