Regia di Danièle Huillet, Jean-Marie Straub vedi scheda film
Le polemiche nate intorno al film e alle dichiarazioni fatte pervenire da Straub,assente per motivi di salute,al Festival di Venezia del 2006, le recensioni spesso negative che il film ha ricevuto, ma soprattutto l’alone di ignoranza ancora esistente intorno alla filmografia dei due registi, rivelano una fatale convergenza con il destino di Pavese
Film studio, 2005:“Perchè ha scelto Cesare Pavese come letterato sulla cui opera basare un film?”
Straub “Non si sceglie un letterato. Si fa un incontro, come nella vita. Non ho letto tutto Pavese, ho scoperto due suoi libri, e mi hanno colpito. Basta. Anzi il prossimo film, che sarà anche l'ultimo che giriamo in Italia, in Toscana intorno al Monte Pisano, sarà il seguito della prima parte de Dalla nube alla resistenza.Adesso faremo un film con i cinque ultimi dialoghi di Pavese,che era l'unico scrittore che non era compiaciuto di sé stesso, il che in Italia vuol dire molto.”
Dal mito alla storia, gli Straub-Huillet tornano sui Dialoghi con Leucò, facendo recitare un gruppo di dieci attori.
La cornice è il verde frusciante della macchia mediterranea (siamo nella campagna pisana e il pensiero va anche allo sfondo naturalistico dell’incipit pre-mitico nella Medea di Pasolini, con il Centauro e Giasone fra i casoni di Grado nella laguna veneta).
Colori e atmosfere da dramma pastorale, personaggi immobili che recitano i dialoghi, suggestioni pittoriche del naturalismo ottocentesco si fondono ad incursioni nella prospettiva aerea di certe tele di Manet.
La macchina scruta la realtà con occhio incantato, il montaggio alterna con semplicità lineare il totale
dell’ambiente e i due campi americani sugli attori, i dialoghi terminano con un lungo momento di silenzio, lo stesso che stacca ogni verso, anche in presenza di enjambements (con effetto indubbiamente straniante), le voci declamano, è teatro/cinema ed è, insieme, l’eco di un passato mitico.
Gli oggetti della natura, compagni di vita quotidiana, diventano, in un attimo, oggetto di stupore, epifanie di immortalità.
Il testo di Pavese si trasforma in linguaggio filmico e s’immerge in quella dimensione orale/aurale in cui il mito parlò all’uomo del dolore e della morte, del destino e delle leggi imperscrutabili del Fato.
Il dramma di una società sconvolta dagli orrori delle due guerre e il doloroso senso di smarrimento, l’incapacità di radicarsi a certezze e valori irreparabilmente compromessi, la solitudine disperante dell’uomo che non trova risposte al perché della sua esistenza, l’angoscia del tragico non-senso delle cose, furono l’esperienza umana e letteraria di Pavese, “esemplare e cruciale di tutta una generazione” (I.Calvino).
Nei Dialoghi, la sua opera più coraggiosa ed estrema, lo scrittore affrontò un discorso d’avanguardia sulla contemporaneità, che allora non fu capito (tra il 1945 e il 1947), anzi gli valse l’accusa di disimpegno da parte del mondo della cultura.
Il realismo imperante del secondo dopoguerra marchiò l’autore di allontanamento dai problemi, di fuga dal mondo, mentre Pavese non faceva altro che parlare del mondo e del suo destino, della morte e della felicità dell’uomo, ma il suo linguaggio era una sfida al conformismo del proprio tempo.
“L’Italia è il paese dove ogni scheletro si sistema nell’armadio, in cui tutto viene rimosso, in cui tutto cade nel pozzo dell’indifferenza e quel che c’è in comune tra Vittorini e Pavese è proprio invece il fatto che erano spiriti che non facevano questi giochini.” aggiunge Jean-Marie Straub, rendendoci ancor meglio conto delle sue scelte letterarie.
Nasce così un film rigoroso, innovativo, coerente con il lungo impegno della coppia franco-tedesca di minare le estetiche tradizionali, muovendosi contro le vecchie strutture narrative.
Il percorso fra i Dialoghi va dal momento in cui gli dei cominciarono ad invidiare gli uomini a quando gli uomini ricordarono che una volta si incontravano con gli dei.
L’oggetto del dialogo tra gli immortali è l’incapacità umana di trovare soddisfazione alla vita: "loro che hanno istanti unici non ne capiscono il valore e vogliono l’immortalità".
Il destino dell’uomo è ineluttabile e la morte necessaria, ma egli non trova in ciò che già possiede la propria felicità.
“La mia felicità sarebbe perfetta - scriveva Pavese ne Il mestiere di vivere - se non fosse la fuggente angoscia di frugarne il segreto per ritrovarla domani e sempre.Ma forse confondo: la mia felicità sta in quest’angoscia. E ancora una volta mi ritorna la speranza che forse domani basterà il ricordo”.
Il film di Straub-Huillet rivela una comprensione intima, quasi viscerale, della poetica di Pavese, è profondamente consapevole della tensione etica di quella grande voce del’900 che parlava della “….morte come destino, come sorriso di chi accetta sé stesso e la sorte, come fare una cosa già fatta, già esistita prima che si nasca, come coscienza che “ciò ch’è stato sarà”, come ricerca di sé stesso nel sangue che gonfia le vene e accende gli occhi, nella voce che fa eco ad altre voci, violando i silenzi inaccessibili dei cieli selvaggi; trasformare tutto in azione, attesa e speranza del tempo, il futuro in passato, e nominare le cose per fermarle come ricordo, facendole riemergere dal silenzio delle origini ” (F.Mollia, Cesare Pavese, ed.La Nuova Italia,1963).
Le polemiche nate intorno al film e alle dichiarazioni fatte pervenire da Straub, assente per motivi di salute, al Festival di Venezia del 2006, le recensioni spesso negative che il film ha ricevuto, ma soprattutto l’alone di ignoranza ancora esistente intorno alla filmografia dei due registi, rivelano una fatale convergenza con il destino di Pavese, e non solo.
Saprà la Storia, come afferma Montale ,“prendersi le sue vendette”?
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