Regia di Emilio Estevez vedi scheda film
Torniamo indietro al 1968. Fine del decennio. Gli Stati Uniti sono scossi da disordini sociali e razziali, si intensifica la protesta contro la guerra in Vietnam. Vengono a mancare in questo anno due figure fondamentali dell’epoca. Martin Luther King e Robert Kennedy.
L’America ricade nell’angoscia.
Emilio Estevez si immerge in quel periodo, traccia una galleria di personaggi che rispecchino le diversità di allora. Camerieri messicani, cuochi e centraliniste di colore, anziani&ricordi, l’impegno politico, i bianchi sempre nei posti di potere, una cantante alcolizzata, una parrucchiera tradita, due ragazzi che provano l’Lsd.
All’interno dell’hotel Ambassador si intrecciano frammenti di queste vite, ognuna con il suo piccolo mondo dietro le spalle, quasi un’entrata a esistenze più vaste, storie più grandi. Ma il regista ha il tatto e la bravura di saper delineare i suoi personaggi con brevi accenni, senza mai eccedere in descrizioni e psicologie.
Piccole storie che si susseguono fino a sfociare nell’ennesimo assassinio di un Paese che ha visto i suoi capi più carismatici venire uccisi sistematicamente.
La tragedia riguarda, prima di tutto, l’America in quanto nazione, in quanto società. L’uccisione di un leader, liberal e democratico, come Kennedy portò le persone in uno stato di confusione e inquietudine che si espanse poi per tutti gli anni settanta, escludendo forse la parentesi pacifista e utopica degli hippy.
La tragedia vera e propria tocca anche i personaggi. Essi però si imbattono nel dolore o nella disillusione senza esserne mai veramente distrutti. Estevez crea intorno ai suoi molteplici protagonisti un’aura di umanesimo che ce li fa sentire più vicini. Il regista, più di tutto, riesce a ricreare quella serie di legami (sociali quanto sentimentali, positivi quanto negativi) che hanno contraddistinto un’epoca.
Estevez si riappropria di un pezzo di Storia americana inserendolo in un contesto finzionale che ce ne mostri l’ambiente, che ci faccia ricordare chi erano quelli che credevano in Kennedy e cosa esso rappresentasse per loro. E’ come se Estevez avesse ricostruito il fuoricampo di quei filmati originali che usa per mostrare i discorsi di Robert Kennedy. Cosa c’era oltre a lui? Quali erano le persone che lo stavano ad ascoltare? E dietro queste persone quali storie si potevano celare?
Il senso del titolo, Bobby, è proprio in questo. Nel passaggio a ritroso che dall’individuo si fa verso la massa. Bobby è infatti un film corale, dove la figura di Kennedy è quell’elemento che unisce tutti gli individui. Un senso politico, dunque. Una metafora della società, dove chi viene eletto dovrebbe essere colui che unisce sotto il suo nome tutti quelli che lo hanno votato.
I discorsi di Kennedy, tutti autentici, presi dai materiali d’archivio, si insinuano nelle immagini per creare quelle correnti politiche e ideologiche che strutturano l’intera operazione.
Perché al di là del racconto corale, che più di Altman ricorda film come Magnolia o Boogie Nights, Estevez cerca una vera e propria dichiarazione di intenti che ripercorra le parole di Kennedy.
Il film più che un memoriale sembra essere, soprattutto nella parte finale, dove le immagini diventano solo un supporto visivo alle parole di Bobby, un vero e proprio pamphlet contro l’attuale politica americana, soprattutto quella estera.
Le parole di Kennedy dense di pacifismo e democrazia sono lontane anni luce da quelle di Bush.
Non ho purtroppo le necessarie conoscenze storiche per poter affermare se quanto fatto in vita dai Kennedy abbia rispecchiato o meno le loro parole, però dalle immagini esce fuori un ritratto di un’America che attraverso una parte del suo popolo e dei suoi rappresentanti cercava in ogni modo un cambiamento radicale.
Certo il passo dalla troppa fede politica alla retorica è sempre breve, ma in questo caso, l’esigenza comunicativa di Estevez sembra molto sincera.
Semplicemente la figura di Robert Kennedy simboleggia tutta quella serie di elementi morali e sociali che mancano all’America odierna.
Ci ritroviamo infatti, a quaranta anni di distanza, un Paese imprigionato nelle mani di chi della pace non ha saputo veramente che farsene.
Di chi inneggiando alla democrazia ha invece composto un orribile canto di morte.
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