Regia di Emilio Estevez vedi scheda film
Il bel film di Estevez è la rappresentazione di una crisi di identità (e di ideali): quella di un paese (gli USA) e di una parte cospicua del suo popolo che mette in scena la ripetitività “assassina” che annulla ogni residuo briciolo di speranza per la caduta verticale della ragione e del buon senso. La morte di Bobby è dunque la fine di un’utopia.
Ha scelto con coraggio l’impervia strada dell’affresco corale Emilio Estevez per il suo “Bobby” , e possiamo ben dire che la “scommessa”, decisamente “ostica” sulla carta, è stata invece ampiamente vinta perché i risultati sono - più che apprezzabili - decisamente positivi, anche se dobbiamo ammettere (ma sarebbe davvero una disquisizione tutto sommato inutile e persino superflua, perché quel che conta è l’impatto complessivo dell’impresa, e questo c’è ed è fortemente coinvolgente) che non tutto procede alla “stessa velocità” e livello (soprattutto nella prima parte) e che qualche passaggio risulta un po’ forzato, così come non tutti i personaggi della vasta galleria (ben 22) risultano messi a fuoco con la stessa ”lucidità” e nitore, tanto che alcune delle storie più marginali (o superflue) finiscono persino per “smarrirsi” durante il tragitto. Non facciamone allora una questione di “lana caprina” riconoscendo al regista, in pratica qui alla sua “vera” prima prova impegnata e seriamente significativa se valutiamo oggettivamente ciò che aveva prodotto in precedenza (spesso risibile e “incolore”) e questo particolarmente per quanto concerne “lo stile”, tutta l’ardimentosa dedizione dimostrata nel decidere di “raccontare” la tragicità dell’evento che sta al centro del progetto, semplicemente rappresentando il “contorno”, il contesto e le persone che animano lo scenario, secondo un tracciato “altmaniano” che richiede una perizia e una “spudoratezza” anche tecnica notevolissima e una chiarezza di sguardo che consenta un adeguato dominio della materia, affinché non ci siano eccessive sbavature e dispersioni, così che alla fine davvero i principali pezzi del mosaico si coagulino fra loro trovando i giusti incastri per riproporre il “disegno originale” senza disperderne le valenze politiche e sociali. Ed è proprio con questo obiettivo che Estevez anziché concentrarsi sulla “figura” di Robert Kennedy, preferisce soffermarsi a riflettere (costringendoci a fare altrettanto) su ciò che ha effettivamente rappresentato la sua persona, evidenziando in primo piano le speranze e le illusioni che aveva saputo alimentare il suo “progetto politico”, purtroppo prematuramente (e definitivamente) soffocate da quei colpi di pistola sparati a bruciapelo negli spazi demodé dell’Hotel Ambassodor di Los Angeles il 4 giugno del 1968 (e la fine del “sogno” è brusca e repentina, rappresenta uno scossone traumatico anche per lo spettatore per il suo carico di violenza e di sangue in quel finale parossistico e accorto, costruito con sapiente maestria ritmandolo sulle parole di uno dei discorsi più importanti e famosi di colui che sarebbe potuto diventare il nuovo Presidente, che ci fanno ancor più comprendere la portata della tragedia e intravedere le “responsabilità” che sono ben più marcate e profonde di quelle di un gesto di un disadattato e folle: un “evento” studiato e programmato per evitare il cambiamento così necessariamente avvertito in quegli anni, tanto da poter perpetrare nel tempo un disegno diabolicamente oscurantista che resta ancora in piedi oltre 40 anni dopo con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti). Un ulteriore inevitabile assassinio “politico” quello di Bobby (dopo quelli analogamente “feroci e improvvisi” dell’altro Kennedy e di Martin Luther King), un ennesimo crimine, premeditato e “indispensabile”, per il quale i veri mandanti – effettivi o presunti - non solo non sono stati puniti, ma hanno persino ottenuto il riconoscimento “legale” del dominio, un altro (in)comprensibile atto doloso di coloro che hanno inteso afferrare ad ogni costo e con ogni mezzo anche il più trucido e violento, il loro personale diritto al “potere assoluto” che ancor oggi detengono e che continuano a difendere con spregiudicato cinismo. Ed è in questa prospettiva che “Bobby” è soprattutto il racconto di una crisi di identità, quella di un paese (gli Stati Uniti d’America) e di una parte cospicua del suo popolo, una angolazione questa che consente una “lettura dei fatti” e delle prospettive perfettamente inserita nell’assurda ripetitività del presente (il Vietnam ancora una volta come l’Iraq) ma in una dimensione purtroppo ancor più priva di speranza, sia per la caduta verticale della ragione e del buon senso che non è fatto di secondaria importanza, che per l’assenza di una personalità di analogo carisma capace in qualche modo di “accogliere” e coordinare le disperate istanze di chi invece non vuole ancora arrendersi. Ecco che allora ci viene (fortunatamente) risparmiato il “santino” (“Bobby” è tangibilmente percepibile soltanto attraverso le immagini di repertorio e grazie alla “forza” - persino un poco retorica – delle sue parole, mentre tutta l’attenzione si sposta sulla varia umanità che anima(va) le stanze di quell’albergo in quella giornata così tumultuosa e febbrile, piccolissime vicende di normale amministrazione, ma non per questo meno appassionanti nel flusso della grande storia, perché emblematiche nel rappresentare uno “spaccato” attendibile- ancora la grandissima lezione Altmaniana!!!- di quell’America liberal o “marginale”, di quegli spauriti diseredati in cerca di asilo, alle prese con le propri paure, le proprie illusioni e i propri fallimenti, una moltitudine in espansione progressiva e inarrestabile che identificava in Kennedy l’unica possibilità di “riscatto possibile”, intravedeva in lui e nella sua affermazione, il “mezzo” che permettesse davvero la realizzazione di una differente e nuova “prospettiva di decenza”, quella di una uguaglianza formale dei diritti e di un riconoscimento rispettoso delle priorità, che quelle “promesse di cambiamento” e il suo impegno sul campo lasciavano per lo meno prevedere come possibili). Un progetto a lungo accarezzato quello di Estevez che rappresenta anche un contributo personale alla “memoria” complici una attonita galleria di “figuranti” a loro volta a vario titolo coinvolti e travolti da quell’attentato assurdo e delittuoso che rappresentò davvero la fine delle illusioni e la definitiva perdita dell’innocenza di una nazione e di una (presunta) civiltà. Si avverte, al di là dell’impegno profuso, la “passione” profonda che anima l’impresa, così viscerale e sentita, da contagiare non solo il nutrito cast stellare che ha accettato di condividere il viaggio (tutti attori di “chiara fama” stupefacentemente “in parte” senza gigionismi o prevaricazioni, disponibili ad essere semplici e momentanei “solisti” di un coro polifonico con l’umiltà dei “grandi”, con una menzione davvero speciale – per le mie personali preferenze – per Sharon Stone e Demy Moore- coraggiosamente disponibili a presentarsi con i segni indelebili dell’invecchiamento, in un “duetto” che rappresenta non solo un assoluto pezzo di bravura , ma soprattutto uno dei momenti più straordinari - insieme al finale - di tutta la pellicola) ma anche l’intero pubblico fruitore in sala che si lascia travolgere da quell’emozione profonda che non può essere “disattivata” di fronte non tanto alle immagini della tragedia, quanto all’attualità che travalica il tempo di quell’accorato discorso conclusivo, da solo capace di ricordare che troppo spesso in quel paese è stato il sangue a soffocare possibili speranze di redenzione, ieri come adesso… ed è una constatazione questa che non può lasciare né indifferente né passivi. Singolarmente (ma la cosa ovviamente non sorprende, semmai intristisce) ancora una volta l’Accademy ha praticamente disatteso le aspettative “snobbando” completamente una pellicola e (e le sue appassionate interpretazioni) certamente non priva di difetti, ma così importante ed eloquente da risultare – ai giorni nostri - imprescindibile (ma davvero c’è ancora qualcuno che pensa che i premi – tutti indiscriminatamente – siano una cosa seria e non invece un semplice “compromesso” di mercato?)
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