Regia di Jan Svankmajer vedi scheda film
La continuità tra gli esseri viventi e gli oggetti è in parte un sogno, in parte un incubo: infatti, da un lato è il miracolo della vita che entra nella materia inerte, dall’altro è la visione infernale di un corpo animato che si irrigidisce nell’abbraccio della morte. Questa compenetrazione tra due mondi opposti è, in realtà, un divorarsi a vicenda, che li restituisce entrambi trasformati. L’atto del mangiare come principio di questa metamorfosi dialettica è uno dei capisaldi della poetica di Švankmajer, ed è splendidamente illustrato nel corto Dimensions of Dialogue (1981), ma compare anche nella sua Historia Naturae (1967): in entrambi i casi, a confrontarsi in una macabra danza sacrificale sono individui in carne ed ossa e/o le loro stilizzazioni astratte (un disegno, una scultura, una fotografia, uno scheletro, un insieme di simboli), dando luogo ad una evoluzione che si conclude, a suon di reciproche macerazioni, con un amalgama indifferenziato che rappresenta, per ogni cosa, la fine eterna. Significativi, a questo proposito, sono anche Picnic With Weissmann (1968), che termina con una sepoltura universale sotto terra e foglie, e Punch and Judy (Rakvickarna) (1966), in cui tutto, figure di cartapesta e fogli di giornale, si riduce, infine, ad un’unica informe sostanza cartacea. Prima di questa definitiva fusione, il flusso di energia procede in entrambe le direzioni, dall’animale all’oggetto e viceversa: le mani dell’uomo donano il movimento ai burattini, che, a loro volta, daranno del mangime ad un criceto. Ciclico è anche il processo che, fino all’ultimo, alterna morte e resurrezione (nel teatrino, uno dei due protagonisti uccide l’altro e lo chiude nella bara, dopodiché i ruoli si scambiano, e l’assassinato diviene l’assassino). In Otesánek il disperato desiderio di maternità di una donna ha il potere di tramutare una radice d’albero in un bambino; ma quest’ultimo, crescendo, diventerà un gigantesco mostro antropofago, e ingoierà anche colei che l’ha creato. Il legno soddisfa i bisogni della carne umana, e viceversa: pelle e corteccia vengono a formare un tutt’uno, e questa unione risponde ad un richiamo irresistibile, primordiale e basilare come l’istinto riproduttivo o la fame di cibo, gli impulsi dinamici da cui traggono origine tutte le attività della natura. Del resto, la presenza della vita si riconosce dal moto, dal trasferimento di sostanza, dalla malleabilità delle forme: queste sono le sue manifestazioni visibili, le uniche che il cinema (quello puro, privo di commenti aggiunti a posteriori) possa utilizzare per esprimersi. L’intercambiabilità tra gli stati (vivo/morto, reale/immaginario) è la fondamentale regola sintattica del suo linguaggio, che solo in forza di questa può articolare il suo pensiero in un discorso organico e sviluppabile nel tempo. In questo film la fiaba antica, contenuta in un libro illustrato per bambini, si trasfonde nel mondo presente degli adulti, e da narrabile diventa indicibile, sostituendo al carattere liberatorio della fantasia il potere opprimente e coercitivo di un sortilegio demoniaco. La pappa, che in condizioni normali rappresenta tenero amore (i biberon preparati da Bozena) e convivialità familiare (le minestre versate dalla madre di Alzbetka nelle scodelle del marito e della figlia), in questa storia diventa una sostanza ribollente, tracimante e ripugnante, che trasuda grasso e sangue, e si moltiplica all’infinito per riversarsi dentro fauci feroci ed insaziabili.
Non fermarsi, ingigantirsi, sforare nel paradosso è la spontanea evoluzione dell’energia primigenia, che non conosce i limiti imposti dai codici morali. Ed è questo allora, necessariamente, anche lo spregiudicato modus vivendi dell’immagine filmica, perché sulla pellicola tutto si appiattisce - persone, cose ed illusioni - e ciò che rimane è soltanto forma pura e semplice, svuotata di ogni contenuto, affrancata dai vincoli geometrici e fisiologici del corpo, ma, anche e soprattutto, sottratta alla tirannia spirituale esercitata dall’anima.
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