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La stella che non c'è

Regia di Gianni Amelio vedi scheda film

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La recensione su La stella che non c'è

di FilmTv Rivista
8 stelle

Una fila di operai incazzati sotto la pioggia. Un pullman di tecnici e dirigenti cinesi in arrivo. Su uno striscione, gli ideogrammi compongono la parola “Avvoltoi”. All’interno della fabbrica l’altoforno ha la bellezza imponente e immota di un dinosauro dell’era industriale. È notte, i cinesi sciamano, chiedono spiegazioni, scattano fotografie, fumano noncuranti dove non dovrebbero. In mezzo a loro, un uomo li osserva, in silenzio e quasi perplesso; poi finalmente si decide ad avvicinarli per chiedere, semplicemente, che facciano bene il loro lavoro: «Con l’acciaio non bisogna avere fretta», dice il manutentore Vincenzo Buonavolontà, e invita gli acquirenti dell’altoforno a non usare la fiamma ossidrica, per non causare danni irreparabili. Ma quando, di lì a poco, torna alla fabbrica con una piccola centralina che ha modificato con le proprie mani, non trova più nulla e nessuno, solo un largo squarcio al posto dell’altoforno che è stato smontato in fretta con il fuoco e immediatamente imbarcato. Si apre così, con il buio, la pioggia e la disperazione sorda di Così ridevano, La stella che non c’è, ennesimo viaggio di Gianni Amelio nell’anima del nostro presente, nei meandri del faticosissimo adattamento al mondo di un uomo che crede ancora nella moralità del proprio lavoro, che non rinuncia al rispetto di se stesso, che non si lascia “dismettere” con la stessa sbrigativa brutalità con cui si fa a pezzi un altoforno. Vincenzo Buonavolontà ha cinquant’anni. Vincenzo Buonavolontà è solo e senza lavoro. Vincenzo Buonavolontà decide di partire per andare a riparare i guasti prodotti dalla fretta; in realtà, forse per la prima volta nella vita, si concede il tempo e lo sguardo di una ricerca di se stesso. Autore per eccellenza in movimento, narratore di treni e spaesamenti, di migrazioni e innamoramenti, di fughe senza voltarsi indietro (il primo, Leonardo nella Fine del gioco) e di dolorosi ritorni (il penultimo, Gianni nelle Chiavi di casa), mai come questa volta Amelio ha sgombrato il campo da equivoci politici e sociali: il viaggio attraverso la Cina del suo protagonista, alla ricerca dell’acciaieria che ha rilevato l’altoforno, è sopra e prima di tutto un viaggio all’interno di una vita già in buona parte vissuta, lungo i passi di un personaggio che non molla sui propri principi ma che, attraverso gli spazi, le asperità e le libertà di un mondo nuovo e sconosciuto, si apre a sentimenti e sorrisi che prima, forse, aveva accantonati. Proprio un sorriso, quello di Castellitto, improvviso, a volte imbarazzato, quasi sempre disarmato, è una delle costanti “solari” del film. L’altra è la presenza un po’ scontrosa, ironica e finalmente dolorosa di Liu Hua, la giovane traduttrice cinese che il protagonista ha trattato bruscamente la prima sera in Italia e che, da Shanghai, gli farà da guida nella risalita dello Yang Tze, lungo la strada delle acciaierie. “Aliena” (com’era il vecchio Spiro per Enrico Lo Verso nel disperato viaggio verso l’identità di Lamerica), spiazzante e misteriosa, oppressa da un segreto straziante (un bambino “abbandonato”, una vita tutta da “storta”, diversa, non omologata), eppure in qualche maniera una presenza rassicurante, una giovanissima “madre” che, come non era mai accaduto prima nei film di Amelio, occupa piano piano il centro emotivo della scena, guida i passi e addolcisce gli angoli, si impunta («Vincenzo Buonavolontà torna Italia», dice il protagonista all’ennesima frustrazione, «No, Vincenzo Buonavolontà trova sua fabbrica e poi torna Italia», ribatte lei, decisa), si oscura (nell’amarissimo monologo in primo piano con cui racconta la propria vita, riassunta dal terribile «Mio figlio non sa nemmeno che sono nata»), si lascia mandare via senza svegliarsi, riappare quieta in una stazioncina sperduta in mezzo al nulla, con un giocattolo rotto in mano, delle ciambelle in borsa e un conto con il passato finalmente saldato. La Cina è lontanissima, è un pullulare di gente e di facce sullo sfondo dell’inquadratura, un ammassarsi di camion e un fiorire di accampamenti notturni su strade di montagna “albanesi”, è sfruttamento industriale selvaggio e bambini che giocano e mangiano a terra tra le polveri d’acciaio; ma è anche una successione di gesti perduti e confortanti, la pasta stesa al sole ad asciugare e le macchine per cucire che si riparano (i giocattoli no, non si riparano più nemmeno in Cina), la gentilezza verso l’ospite, l’offerta del cibo, del sorriso, di un “tempo” meno affannato e di uno “spazio” più aperto che leniscono. Il tempo per piangere in mezzo a un fiume, e per finire di piangere e, forse, cominciare qualcosa di nuovo. Amelio ancora una volta non ci dà consolazioni o certezze, non preferisce un mondo a un altro, non mitizza. Semplicemente, scava all’interno di quello che vede, spazia con uno stile in perfetto equilibrio tra il cinema classico e il Rossellini dei viaggi nell’anima, sceglie, per una volta, di fare proprio lo sguardo onesto e disorientato di Vincenzo, protagonista adulto che ha avuto il coraggio di non farsi dismettere.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 37 del 2006

Autore: Emanuela Martini

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