Regia di Zhang Yuan vedi scheda film
Ipotizzare un mondo senza la presenza degli adulti. La visione di esso solo dalla parte dei bambini. L’assenza di ogni regola, privata o sociale. Questa è l’operazione tentata dal bravo regista cinese, Zhang Yuan, nel film che, tratto dal romanzo semi-autobiografico di Wang Shuo, segue il fortunatissimo Diciassette anni, film che si aggiudicò il Leone d’Argento alla Mostra di Venezia.
Questa volta siamo nella Cina degli anni Cinquanta, dove, fra una cinquantina di bambini, vi é Quiang che ha solo quattro anni ed é lasciato dal padre in un collegio, poiché il lavoro gli impedisce di seguirlo con la giusta attenzione. In questo luogo estraneo Quiaag comincerà a socializzare, finendo, però, per rifugiarsi sempre più in un mondo di fantasia, che non prevede la presenza di regole comportamentali. Le maestre si accorgeranno di ciò e cercheranno di “educare con spirito maoista” il bambino, senza grande successo.
Yuan questa volta non racconta il reale del mondo urbano, in quell’estremo oriente, che ormai di estremo conserva soltanto il ricordo, essendo la globalizzazione l’unica regola che ormai dirige ed “educa” il mondo, specie quello bambino, inteso alla maniera dell’ingenuo. Il regista entra e si chiude, come un minotauro, in un ‘asilo politico’, in cui la sregolatezza sarebbe l’unica regola da perseguire. Puntando su una visone favolistica, e su un’interpretazione visionaria (straordinarie le sequenze che vedono il piccolo protagonista aggirarsi nudo e libero nella neve), l’adulto-spettatore è tirato in inganno per il modo attraverso il quale il mondo, ed in esso la scuola, la famiglia, la società, ecc., rappresentano la grande caserma in cui ci si educa alla convivenza, a prescindere poi dalle conseguenze a cui si giunge: la privazione, l’anonimità, il conformismo, la meccanizzazione, ecc. Solo che il regista cinese è lontano un miglio (anzi, molto di più) da quei registi che hanno reso la pedagogia e psicologia dei bambini, meglio di qualsiasi illusionista freudiano, stiamo parlando di Jean Vigo, Truffaut e il più recente Philibert. A Yuan manca soprattutto l’anarchia della guerra di questi autori.
Tuttavia, anche La guerra dei fiori rossi ha alle sue spalle una produzione che garantisce, comunque, la qualità dell’opera: c’è lo zampino dello stesso produttore di Diciassette anni, Marco Müller, sinologo di grande esperienza, ex direttore dei Festival di Pesaro, Rotterdam e Locarno ed ora attualmente in sella alla kermesse veneziana. Il film si avvale di un bravissimo montatore italiano, Jacopo Quadri e di un altrettanto musicista italiano, Carlo Crivelli che, però, ha scritto per l’occasione una musica assolutamente fuorviante e insignificante, assemblando un’orchestrazione tipicamente disneyana.
Alla fine dei conti, comunque ci saremmo aspettati una maggiore incisività su quella “guerra” evocata dal titolo del film. Questa si riduce semplicemente nel collezionare i fiorellini rossi, che identificano il “bravo cittadino”, allo stesso modo del bambino di Benigni che colleziona punti per ottenere il carro armato. Ma dove sono quelle figure obese di potere facenti parte dell’autorità cinese, il Governo e il suo esercito? Si, va bene l’educazione, che appare repressiva, ma non così cattiva, da valere la pena di combatterla con la “guerra”.
Giancarlo Visitilli
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