Regia di Michael Polish vedi scheda film
1955 La cittadina di Northfork sta per essere sommersa dalle acque a seguito della costruzione di una imponente diga idroelettrica, “un’enorme lapide per la città” secondo le meste e rassegnate parole del sacerdote locale, Padre Harlan. Un gruppo di sei uomini in nero, facenti parte del Comitato di Evacuazione, è impegnato a vincere la dura resistenza degli ultimi irriducibili residenti, assai refrattari ad abbandonare le proprie case. Ben presto però i sei si rendono conto che il loro compito è tutt’altro che scontato perché “è più difficile cacciare via questi figli di puttana che un pidocchio dal culo di una gallina.”
Stranissimo, enigmatico ma a conti fatti inconcludente e vacuo film di pseudo-fantascienza. Annichilito da un ritmo spossante in cui lunghe meditabonde sequenze di silenzi vengono intervallate da dialoghi sentenziosi (“Conosci l’odore della morte? Lo riconosci dopo averlo sentito, perché dopo dici, dannata miseria, è morto qualcuno!”) o da episodi sfacciatamente assurdi, quando non ridicoli, o più semplicemente incomprensibili e del tutto criptici, almeno per me, “Northfork”, pur potendo contare su un cast di assoluto prestigio ma per lo più spaesato, è la classica bufala d’autore autocompiaciuta, tronfia ed irritante. Ammantato da una fotografia dai toni malinconici e dai colori grigio/seppia di evidente eleganza formale ad enfatizzare il fastidioso tono aulico e d’autore dell’operazione, il film paga derive surreali e oniriche di totale inutilità (ci sono quattro angeli in abiti carnevaleschi alla ricerca dell’angelo sconosciuto, individuato in un bimbo di 9 anni, abbandonato dai genitori perché affetto da una malattia incurabile ed accudito dall’amorevole padre Harlan e con i chiari segni di un passato celeste) e si perde tra recitazioni solenni e mummificate e massime di plateale piattezza (“Siamo tutti angeli, quel che fa la differenza è ciò che facciamo con le nostre ali!”).
Nella memoria restano un’ambientazione desolata e dimenticata, a tratti suggestiva (uno dei residenti è un novello Noé, rifugiatosi con le sue due mogli in una sorta di arca, in attesa di un segno divino che lo spinga a lasciare quella terra e disposto fino ad allora ad affrontare anche “un’alluvione di proporzioni bibliche”), un’idea di fondo curiosa ed accattivante (una città destinata a scomparire per diventare il fondale di un immenso lago) e un’insolita atmosfera funerea e fantasmatica di solitudine, vuoto e abbandono, ma il ritmo soporifero, la messa in scena statica ed estetizzante, la narrazione arzigogolata, pretestuosa e sconnessa, il simbolismo ricorrente e pedante, una ricercatezza poetica alla lunga fine a se stessa, le ambizioni troppo alte e presuntuose, una morale spicciola (“Nel nome del progresso la morte non vale niente.”) ottengono un effetto sconcertante e respingente (non si prova empatia per nessuno dei personaggi). Ne esce un film di sconfortante monotonia e di pacchiana evanescenza: una favola morale, non priva di un suo fascino lontano, quasi impalpabile, ma dal passo pesantissimo, dalle impacciate considerazioni filosofico-esistenziali, emotivamente inerte, tristemente faticosa, desolatamente impenetrabile. Tipico film che sembra fatto apposta per dividere nettamente entusiasti e detrattori. Il celebre critico Roger Ebert, nell’esaltare il film attribuendogli il massimo dei punteggi, cita il cinema di Terrence Malick (“I giorni del cielo”) e Wim Wenders (“Il cielo sopra Berlino”): “Ha i desolati spazi aperti del primo e gli angeli del secondo, nonché la sensazione di profonda tristezza e di pietà di entrambi.” Personalmente, però, mi pare che “Northfork” resti ben lontano dai due illustri lavori citati e anzi, se possibile, radicalizzi i difetti delle opere meno riuscite dei due celebrati autori. Titolo che chiude una personale trilogia del regista iniziata nel 1999 con “Twin falls Idaho” e proseguita nel 2001 con “Jackpot”.
Voto: 4
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