Regia di Danny Boyle vedi scheda film
il Sole, il Sole, il Sole
In molti film di fantascienza catastrofica il problema è rimettere in moto un qualche meccanismo che ha smesso di funzionare. Qui il problema è bello grosso: si tratta di far ripartire nientemeno che il Sole, che si sta pigramente raffreddando. Di solito, questi film sono basati a terra, e la vicenda si concentra su pletore di scienziati che studiano cosa sparare verso l’alto (o il basso, se il cattivone è il centro del pianeta). Alla fine ci riescono, e vissero tutti felici e contenti.
Sunshine invece comincia (e finisce) a bordo dell’astronave già in viaggio. Questo muta comprensibilmente il piano descrittivo, rendendolo più intimista e claustrofobico che catastrofico. Per alcuni versi ricorda Solaris, per altri Moon, per altri ancora la parte 3 di 2001 Odissea nello spazio.
A mio personale avviso, il fascino della pellicola risiede quasi integralmente nell’incombenza, più suggerita che esemplificata, dell’ “oggetto del desiderio”. Il Sole sfida in molti modi il pensiero umano: i suoi parametri sono fuori scala rispetto alla nostra esperienza. Spararci contro un’astronave, per quanto dotata di una testata nucleare vasta come l’isola di Manhattan (sic!), dà un po’ la sensazione di affrontare le Macchine di Matrix armati di una fionda. La nostra stella, oltre ai suoi straordinari (rispetto a noi) parametri fisici, ha una enorme valenza simbolica per tutto il genere umano: almeno dagli antichi egizi in poi, rappresenta in modo ambivalente l’origine della vita e una scala di potenza contro la quale nessun gesto è sensato. Boyle sembra saper dirigere efficacemente il piano del racconto in direzione del fascino che l’astro esercita sull’equipaggio, e sin dalle prime scene illustra in modo convincente come i termini della sfida (hybris, sarebbe il caso di dire) ne influenzino la psiche. Avvicinandosi al Sole, la pressione psicologica sugli astronauti aumenta proporzionalmente, modificandone il senso di sé e arricchendo di ambiguità consce e inconsce il significato e la fattibilità della missione. Ha poca importanza che il film sia pieno di incongruenze scientifiche – prima tra tutte la trascurabilità di far esplodere una bomba termonucleare dentro la stella, che in termini energetici equivale a dare un calcio a un carrarmato – il punto non è questo. Il senso del film – a mio parere – sta nell’idea di avvicinamento al mostro, il quale di per sé non è cattivo (anzi sì: ha smesso di brillare a sufficienza), ma certo non perdona il minimo errore. È perciò una pellicola sul Viaggio, il più importante della razza umana e anche sull’orgoglio della medesima. Tutto il resto è contorno, compresa la trama, le diatribe interne, la caratterizzazione dell’Eroe (Cillian Murphy/Robert Capa (omonimia casuale?), la faccia svagata più espressiva d’Irlanda).
Il punto più debole di Sunshine è la seconda parte, quando oltre alla scienza si sfida anche la logica per far comparire a tutti i costi – e senza beneficio alcuno – il comandante della prima nave, data per dispersa. Ciò aggiunge un’inutile e appendicea vena thriller al plot, dove a mio avviso sarebbe stato assai più proficuo usare i minuti a disposizione per ribadire la filosofia centrale del film. Se proprio serviva un guaio, un imprevisto, bastava far cominciare a sciogliere l’ombrello di protezione, o aggiungere qualche grado imprevisto al gradiente di avvicinamento, ma la semi-mummia che pontifica sull’inanità dell’Uomo non si può vedere.
A conclusione: 10 per l’indirizzamento dell’idea di base, 7 per la realizzazione complessiva. Un otto e mezzo, insomma. Non l’avete visto? Vedetelo.
ps.: perché chiamarlo Sunshine, invece che Sun?
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