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Sunshine

Regia di Danny Boyle vedi scheda film

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La recensione su Sunshine

di scapigliato
9 stelle

Esistenzialismo-Horror. Sì, “Sunshine” non è il solito film di fantascienza con alieni assassini o roba del genere, è quella che si chiama “space opera” e che è la diretta erede della “horse opera”, ovvero i primi abbozzi di film western, quando ancora il western come genere codificato non c’era. Questo significa che non c’è nell’intenzione del regista di fare un prodotto di Sci-Fi fine a se stesso, ma di ripercorrere la lunga tradizione di autori che hanno fatto della frontiera spaziale quella ultima dell’indagine umana. Come prima si era fatto, e ancora oggi si fa, con la frontiera del West. Si fanno i nomi di Stanley Kubrick con il seminale “2001: Odissea nello Spazio” e di Andrej Tarkovskij con “Solaris”, ma anche quelli di Ridley Scott per il suo primo “Alien” che battezzava la Sci-Fi postmoderna. Ma non vanno dimenticati il primo Geoge Lucas con “L’Uomo che Fuggì dal Futuro” e la “space opera” più popolare e contaminante: “Star Trek”. Io ci aggiungo pure gli “Space Cowboys” di Clint Eastwood, e non solo per partito preso, ma perché in “Sunshine”, come in ogni film di questo tipo che si rispetti, ho ritrovato il tocco leggero che ha avuto lo stesso Eastwood in tutto il secondo tempo del suo film sui “nonnetti dello spazio”.
Detto questo, cos’è “Sunshine”? E’ un un film di fantascienza esistenziale che prende la piega del thriller claustrofobico per chiudere come un solido horror allucinato. In definitiva è una mitopoiesi distopica incastrata dentro le suggestioni della “space opera”, i cui caratteri sono ben evidenti: indagine esistenziale, apocalissi, alienazione, introspezione, e via dicendo. Si indaga sul fine ultimo dell’uomo e anche sulla fine ultima dell’uomo come individuo e dell’uomo come umanità. Scegliere della vita di un collega sulla navicella spaziale Icarus non è né più né meno che scegliere per il destino del mondo intero. Allora se la prassi è uguale, cosa distingue l’individuo dall’umanità intera? E la morte? Dove si situa in questi confini dell’anima? Chi la govena e chi la regge? E Dio? Esiste o è la proiezione distorta del nostro bisogno di certezze e risposte, tanto da creare anche forme di fede esattamente opposte come quella dell’intruso che mieterà le sue vittime al suono di “Non è il tuo Dio. É il mio!”. Delirio di onnipotenza, follia collettiva davanti alla morte: dove sta andando l’uomo? Verso il Sole davvero? Il film inizia che siamo già immersi nell’atmosfera sterile della navicella spaziale, vi siamo già immersi e l’architettura dei luoghi e dei personaggi in quei luoghi, già ci aliena, già ci catapulta nelle indagini introspettive dei protagonisti. Da quello che sfida la potenza del Sole e cerca di superarla, a quello che vuole riportare tutto al rigore di un comando o di una gerarchia. C’è chi piange per un collega, e chi è pronto a sacrificare gli inutili per la salvezza del mondo intero. Si parla di massimi sistemi, ma di uno su tutti: la nostra posizione davanti alla morte. Infatti gli otto astronauti sanno che muoriranno. Come ti poni davanti alla morte quando sai che non puoi sfuggirle? Come ti poni quando sai che morire significa però “vedere la luce”, forse anche Dio? Vedere il sole da vicino ti ucciderà, bruciato vivo. Eppure, inesorabili, gli astronauti tendono ad un’autodistruzione religiosa, in cambio di una sola certezza, l’unica: la morte con cognizione di causa. Morire per qualche cosa e dare così senso a qualcosa (la vita?) che senso non ne ha avuto. In questo caso, ridare energia al Sole e quindi luce alla Terra. Questo viaggio inesorabile verso una follia ad occhi aperti, è perpetrato allo spettatore attraverso il livello visivo del film che tra architetture asettiche, come gli occhi straordinari di Cillian Murphy, forme e linee che dividono luoghi e anime, movimenti che sono pensieri, entità chimiche che vivono e respirano, tagli di luce, i dialoghi monotóni, la distanza tattile tra i personaggi, il livello visivo del film compie le volontà onnipotenti(!) del regista. Danny Boyle, sempre più bravo e sempre più sottovalutato, introduce questi caratteri visivi estranianti grazie ad un montaggio e a inquadrature disturbanti, dove tutto si difforma perché forma non ne ha mai avuta. Come siamo stati noi uomini ad inventare le concezioni di tempo e spazio, anche le forme, le superfici, gli interni, e tutte le prove di un’esistenza umana quotidiana, sono forse frutto di un’invenzione razionale umana, atta a sfuggire dal Caos, quel Caos di cui parla anche Isaac Asimov, e che ritorna puntuale ogni volta che l’uomo parte per lo spazio.
Con Cillian Murphy impeccabile come al solito, e con un soprendente Chris Evans, ovvero l’uomo torcia dei Fantastici 4 cinematografici, il duo Danny Boyle e Alex Garland, uno dei migliori scrittori contemporanei che pare essersi dato al cinema in pianta stabile, sono riusciti, come in “28 Giorni Dopo”, a risemantizzare un genere partendo dai suoi peculiari caratteri, infondendovi un impianto filosofico e una tensione spirituale, religiosa e superonistica, che lo rende un film di assoluta bellezza visiva e di una grande riflessione umana interiore.

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