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INLAND EMPIRE

Regia di David Lynch vedi scheda film

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La recensione su INLAND EMPIRE

di EightAndHalf
10 stelle

David Lynch di recente ha comunicato che non farà più film se non in digitale. Sembra una comunicazione di semplice tecnica, un'affermazione trascurabile di un regista che dichiara senza tanta enfasi una piccola modifica al suo stile. Ma non è piccola, è un cambiamento assoluto, terribilmente affascinante e splendidamente angosciante. Non si esagera se diciamo così, e non sono casuali questi spiazzanti sentimenti contrastanti. Dove sta andando il cinema di Lynch? Cos'altro di nuovo ha da comunicarci? Nell'Apocalisse della Ragione di "INLAND EMPIRE", la fine della logica e del mostruoso ridicolo che troviamo dietro l'angolo (dietro un bar in "Mulholland Drive") è una disturbante successione di paure e inquietudini, dove l'uomo passa solo come creatura evanescente. Quanto è giusto che il regista riprenda la vita, la ritragga, ce la riproponga secondo il suo punto di vista? Quanto vogliamo affidarci all'immagine, quanto quest'inabissarsi ci è fatale, quanto ci danneggia il lasciarsi andare? L'ultimo film di Lynch è un invito all'abbandono, all'incubo della molteplicità, al terrore della visione.
Il labirinto di dimensioni di INLAND EMPIRE è il labirinto della nostra mente, che si sdoppia e si ricompone a suo piacimento. Siamo circondati da altre aperture, come se la mente pensante di ogni singolo uomo complicasse ulteriormente il nostro habitat. Questo film è l'esplosione e l'estensione concreta dei sogni e degli incubi dell'umanità, e uno straordinario atto di sottomissione alla perversa potenza visionaria del cinema, che si incarnato nelle nostre menti di miseri umani. La protagonista è un'attrice, penetra nel suo set che diventa reale, si confonde, forse ha trovato un'altra vita. Ma è osservata, in continuazione, risente di una precedente esistenza, elementi di quest'ultima le si materializzano davanti. Il sogno fallisce e si trasforma in incubo.
Forse INLAND EMPIRE è l'ideale finale della trilogia di "Strade perdute" e "Mulholland Drive" perché il sogno cinematografico è diventato ufficialmente incubo. Forse la follia cerebrale (che qui implode in un abisso dell'immaginario) di Lynch non è lontana da noi, forse ci ha raggiunto e ci è venuta vicinissimo. Senza dirlo esplicitamente, ma mostrandolo in maniera quasi maniacale, Lynch racconta del fallimento del sogno e del trionfo dell'incubo, il cinema è diventato un incubo digitale, non può essere più sogno, perché è nato malato, perché aspira, pretende e uccide realtà altre, future o passate, le manipola, le percuote con violenza. E arrivati al limite, non possiamo fare altro che piangere di fronte al nostro osservatore, a chi sta dall'altra parte di uno schermo inesistente, e che piange per noi. Il cinema è vista, è vita e morte, noi ci siamo dentro. E' arrivato al tutto, per non lasciare nulla. E gioca con noi brutale e crudele, perché possa mostrare agli altri e a sé stesso quanto sia onnipotente. Noi siamo le piccole formiche sotto una lente di ingrandimento al sole. Nient'altro che questo.

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