Regia di David Lynch vedi scheda film
Con INLAND EMPIRE — titolo che, secondo il regista, deve essere scritto tutto in maiuscolo e che è il nome di un’area metropolitana a est di Los Angeles — David Lynch conclude un’ideale trilogia iniziata con Strade perdute (1997) e proseguita, dopo la pausa “lineare” di Una storia vera, con Mulholland Drive (2001). Anche se, probabilmente, INLAND EMPIRE è imparentato in realtà molto più da vicino con il primo film del regista, Eraserhead, con il quale ha in comune comunque solo i limiti, ovvero una incomprensibilità che lì era ancora — e qui ritorna purtroppo ad essere — davvero un po’ troppo programmatica (leggasi cerebrale), oltre che estremizzata (leggasi compiaciuta). All’inizio del film vediamo un uomo ed una donna, entrambi col volto censurato, parlare in polacco: la donna appare confusa e spaventata, mentre l’uomo sembra avere il controllo della situazione e sembra sottomettere la donna (che è forse una prostituta). Poi c’è una ragazza seduta su un letto che piange mentre guarda alla televisione una sitcom interpretata da tre conigli antropomorfi (una puntata della serie Rabbits, girata dallo stesso Lynch). Assistiamo quindi all’insolita e minacciosa visita di una vicina a casa di un’attrice di nome Nikki che ancora non sa se avrà la parte in un film. La vicina le annuncia che sicuramente la parte sarà sua e le mostra quello che accadrà il giorno appresso: Nikki vede se stessa festeggiare per l’assegnazione del ruolo che la vedrà recitare affianco ad un famoso attore di nome Devon. Quando il regista confida ai suoi due attori protagonisti che il film che stanno per girare (intitolato Il buio cielo del domani, On High in Blue Tomorrows) è il remake di un vecchio film polacco intitolato 47 che non è mai stato portato a termine a causa della morte violenta dei due attori, comincia ad avere luogo una serie di eventi inquietanti e soprannaturali, dove realtà, sogno e film si mescolano trascinando Nikki in un’infinità di mondi paralleli in cui un foro nella seta praticato con una sigaretta può portare da Los Angeles alla Polonia degli anni Cinquanta. Il film è il primo di Lynch girato in interamente in digitale e il regista ha annunciato, all’uscita del film, che d’ora in poi non girerà più su pellicola tradizionale. La notizia francamente non ci rende felici, perché se INLAND EMPIRE ha un limite grosso, è proprio nell’estetica: le immagini sgranate, a tratti quasi alla Lars von Trier (le scene ambientate nella Polonia degli anni Cinquanta sembrano uscite da Dogville), sono ben lontane dal livello a cui il regista ci aveva abituati con le sue opere precedenti. Non manca talvolta un uso geniale del supporto, come nella scena iniziale con la vicina interpretata da Grace Zabriskie (il suo è l’unico personaggio davvero da antologia), in cui il regista utilizza deliberatamente il primissimo piano per ottenere un effetto deformante sul volto dell’attrice. Ma molto più spesso la sensazione, assai spiacevole, è quella di essere davanti ad immagini semi-amatoriali e buissime, al che si aggiungono una certa trascuratezza nella scelta di alcuni interni ed esterni, ed una inedita mancanza di immaginativa: il che, per un film di Lynch, non è certo un peccato veniale. Mai come in questo film, poi, la macchina da presa del regista ha percorso — instancabilmente, centimetro per centimetro — metri interi di corridoi e di pareti. Il suo talento nello scavare nell’animo umano (il titolo vuole richiamare anche l’impero interiore che si nasconde dentro ognuno di noi) resta indiscusso, così come il sound design elaboratissimo e come sempre da lui stesso curato (mentre per la prima volta scompare la colonna sonora di Angelo Badalamenti, collaboratore fisso di Lynch a partire da Velluto blu). INLAND EMPIRE è, ha detto il regista, «come La dolce vita soltanto che gran parte della dolcezza si è persa. La vita è da quel punto di vista un po’ strana: tutti quanti noi intravvediamo una strada superficiale, ma al tempo stesso proviamo tanti percorsi interiori». In questo senso, INLAND EMPIRE è senza ombra di dubbio un’opera epica e coraggiosa, ma — al contrario della maggioranza dei film di Lynch — risulta francamente a tratti indigeribile, molto diseguale e con scene tirate eccessivamente per le lunghe (i monologhi parolacciari della pur sempre brava Laura Dern, ad esempio) ed una durata esagerata e non giustificata: Mulholland Drive, pur durando poco meno, era molto più affascinante e avvincente. Senza contare che la decadenza delle immagini fa emergere qui impietosamente la fragilità dei personaggi, di cui si pretende, un po’ paradossalmente, di indagare l’intimo senza conoscere il lato più superficiale delle loro vite. Mentre il tema del cinema del cinema, che da 8½ in avanti ogni Autore non può mancare di affrontare (e che Lynch comunque aveva già inserito in Mulholland Drive), ormai lascia davvero il tempo che trova. Brevissime apparizioni per Nastassja Kinski e Laura Harring. VOTO: 3/5
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