Regia di David Lynch vedi scheda film
Un film dotato, fin dall'inizio, di un sottofondo onirico inquietante, da fiaba (la cui versione adulta è il mito dello star system) che si tramuta in un incubo infantile. In esso la magia, anche quella buona, e, in particolare, la chiaroveggenza, assumono la forma di una perfida allucinazione. Così anche l'illusione del cinema diventa una sorta di ipnosi, condivisa da pubblico ed interpreti. La compenetrazione tra realtà e finzione non è certo un tema originale, così come non è una novità, per questo autore, l'unificazione del tempo, con il passato che si sovrappone al presente (vedi la simultaneità teatrale di "Mulholland Drive"). In effetti, nessuno di questi è l'argomento centrale del film, poiché essi sono solo componenti della base narrativa. L'asserto principale riguarda invece la natura della verità, che non nasce mai dal nulla, bensì è un prodotto della mente, di cui concretizza e sviluppa le speranze ed i timori; essa è, ad ogni istante, conseguenza di una premessa, appena creata, o anche sepolta nei più remoti recessi della memoria (come un "conto in sospeso"), ed è, quindi, sempre preannunciata, e mai casuale. Essa è anche costantemente presente, perché il domani è il figlio recato in grembo dall'oggi: in altri termini, la consequenzialità del rapporto causa-effetto può essere letta a ritroso, alla ricerca del "cavallo che beve alla sorgente". Tuttavia la risalita è impervia, così che il passato può essere più indecifrabile ed irraggiungibile di quanto non lo sia il futuro. Ecco le parole che David Lynch mette in bocca alla protagonista: "Il fatto è che io non so cosa sia stato prima, o in seguito; non lo so cos'è successo prima, e sento che mi va il cervello in pappa [...] Immaginavo che un giorno mi sarei svegliata ed avrei scoperto che diavolo era successo il giorno prima. Non sono così capace di pensare al domani, e l'oggi già scivola via." Di questi misteriosi legami temporali il pensiero diviene consapevole attraverso i meccanismi psichici del sogno, che scavano nell’inconscio e nei ricordi rimossi. È superfluo aggiungere che, in questo contesto, i collegamenti sono stabiliti secondo processi che niente hanno a che vedere con la concatenazione logica, e per i quali è arduo ottenere la chiave d'accesso. Forse solo uno spioncino (la seta col buco della sigaretta), che isoli il dettaglio dall'insieme, può aiutare a fare chiarezza. A complicare il tutto interviene la difficoltà a separare, alle radici del nostro agire, ciò che è frutto della nostra volontà da ciò che è dettato dai condizionamenti esterni, per cui ciascuno di noi porta, dentro di sé, anche un po' degli altri. In conclusione, ogni parto del cervello è verità, e produrre quest'ultima, in qualsiasi modo, è tutt'uno col rivelarla. Per tale motivo, al di fuori di questo sottile percorso in divenire, è così vasto e complesso il campo dell'ignoto, di ciò che non sappiamo, non rammentiamo e non riconosciamo, di ciò che è estraneo o straniero ("polacco") o, magari, ci è solo vagamente familiare. I confini di questo campo cambiano da individuo a individuo, il che ostacola la comunicazione interpersonale. Il teatro, con il rettangolo del palcoscenico ed i coni di luce dei riflettori, che compaiono e scompaiono, ritagliando in piena libertà spicchi di storie e frammenti di visione, è la sede ideale in cui rappresentare la multiforme natura del reale. Lo dimostrano le battute scambiate dai conigli di Richard Scarry, usciti da un libro per bambini, e ricollocati in una scenografia da casa delle bambole: "- Lei: Tanto lo scoprirò un giorno. Era rosso. – Lui: Io dov'ero? (Risate dalla platea, poi buio in sala, quindi il dialogo prosegue a luci spente con voci fuori campo) – Lui: È l'uomo col soprabito verde. – Lei: Aveva a che fare con la lettura dell'ora." Il maggior merito di Lynch, che rende la sua opera davvero unica, è avere elaborato le sue tesi non con il registro di un saggio psicanalitico, ma, esclusivamente, con lo strumento del racconto, in cui lo spettatore viene totalmente immerso (com'è giusto e naturale che sia), senza poter cogliere alcunché dello schema – a più livelli, variamente interconnessi – su cui il tutto si regge. E, tuttavia, nel film non v'è nulla che susciti stupore o risulti dissonante, come se i suoi molteplici momenti si susseguissero secondo una coerenza sotterranea, un'armonia che regna sottotraccia e che il nostro occhio interno, a nostra insaputa, distintamente vede. Se davvero così fosse – ma è azzardato ipotizzarlo – questo "Inland Empire" supererebbe di gran lunga la semplice genialità.
Una narrazione in cui ci si perde, come in un labirinto, per poi, improvvisamente, trovare l'uscita, senza sapere come.
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