Regia di Roberta Torre vedi scheda film
Mare nero si apre sul Satiro danzate, un’antica statua sinuosa ritrovata tempo fa nel mare della Sicilia. Roberta Torre la vide poco dopo che era stata ripescata, immersa in una vasca di acido che la ripuliva, e ne rimase affascinata: «È stata un’attrazione forte, irresistibile… Ti perdi quando la guardi… Mi piaceva iniziare il film da un ritrovamento che arriva dal fondo del mare… È il ”dionisiaco“ in cui si immerge il protagonista, l’inizio del suo viaggio». Incipit suggestivo, non c’è che dire. Senonché, subito dopo, veniamo sbalzati in un’asettica realtà metropolitana, dove il protagonista, un ispettore di polizia, si immerge in un ”dionisiaco“ molto particolare, oscuro, ritroso, sadomasochistico, nel quale mescola le immagini della ragazza uccisa sulla quale sta indagando con quelle della fidanzata francese con la quale ha appena cominciato a convivere. Ambizioso e irrisolto, Mare nero non colpisce il bersaglio, non affonda nelle patologie del protagonista e del mondo che lo circonda, non riesce a renderci partecipi dei suoi dilemmi. Le sceneggiatrici (la Torre e Heidrun Schleef) osservano la psicologia maschile dall’alto e semplificano quella femminile, servite male anche dai due protagonisti, improbabili. Troppo cristallo, troppo minimalismo, troppa patinatura alla Helmut Newton (ma di seconda scelta, basti pensare alla scena, piuttosto ridicola, del partouze con la coppia borghese). Pochissima autentica ossessione.
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