Regia di Bryan Singer vedi scheda film
C’è una forte tendenza nel cinema americano alla serializzazione, che non è soltanto la ripetizione di elementi noti per mancanza di coraggio o inventiva con la conseguente moltiplicazione di pellicole cloni bensì, soprattutto, la tentazione di sfruttare meccanismi tipicamente televisivi. Così molti film vengono pensati in più puntate, con un finale volutamente aperto e spunti psicologici destinati a stratificarsi per svilupparsi in seguito, accenni a nuovi personaggi e un preciso recupero degli elementi presentati nelle puntate precedenti. Se l’arco narrativo della vicenda si allunga, il film stesso, in quanto capitolo solo parzialmente autoconclusivo, rimane monco, iniziato altrove e da terminare in seguito.
Superman Returns si staglia su questo panorama perché la sua puntata iniziale risale a trent’anni fa, al Superman di Richard Donner (1978), ormai così ben sedimentato nell’immaginario collettivo da essere un punto di inequivocabile riferimento per il personaggio. Singer fa un’operazione di archeologia cinefila recuperando in toto l’iconografia precedente, scegliendo un protagonista molto somigliante al predecessore Christopher Reeve, un cattivo ingaglioffito (Kevin Spacey) tale e quale a Gene Hackman) e Parker Posey come gemella di Valerie Perrine, a cui chiede di reiterare i modelli anche nella recitazione. Dato che il tema musicale di Williams è ben noto, anche la musica viene riedita, su titoli di testa à la Donner. Inoltre, per confermare l’eredità dal precedente film, Marlon Brando viene (letteralmente) resuscitato proprio nel momento in cui si rivolge al figlio per spiegargli passato e destino, da dove viene e quale sia il suo ruolo. Non è quindi un caso che la novità tematica del film sia la scoperta della paternità di Superman, di non aver saputo di avere avuto un figlio da Lois Lane, e che il leit-motiv (già presente nel film del 1978) sia “il padre diventa figlio e il figlio diventa padre”, con l’idea del lascito e del passaggio di consegna generazionale, di genitore in discendente o di regista in regista, di Superman in Superbaby.
Non solo. Nel periodo intercorso tra i due film, ha avuto (e ha) successo Smallville, serie televisiva su Clark Kent adolescente alla scoperta del mondo e dei propri superpoteri, trama replicata nel breve (e sostanzialmente inutile) flash-back del supereroe tornato a casa, con tanto di corsa nei campi tipica del periodo precedente alla padronanza del volo.
Riuniti tutti i punti d’appoggio su cui far leva, il film in sé, in sintesi, mette uno contro l’altro Superman e Luthor nella solita lotta per il dominio o la salvezza del mondo da un disastro naturale artificialmente innescato. Replicando quindi di fatto Superman di Donner, Superman Returns, pur proponendosi come sequel, fa un remake con variante e aggiunte digitali, senza lesinare su paure recentemente acuite, come i disastri aerei o tsunami catastrofici.
E anche la porzione soap della passione tra Lois e Superman (complicata da quella di Clark per lei) non fa che ripetere il già visto e dato (volo notturno sulla città), pur con l’avvertenza che i personaggi questo l’hanno già detto e fatto, e se lo confermano con nostalgia. Lois però, ora mamma, ha pensato di accasarsi con un collega, creando un nucleo familiare apocrifo ma non disfunzionale. Oliato nel raccontare vicende di superuomini problematici (X-men 1 e 2), Singer inserisce anche qui il tema a lui caro della diversità come doloroso fardello dell’eroe, tanto più inasprito dalla natura del tutto aliena di Kal-El e dall’onnipotenza fisica.
Ma nel saldare i debiti con il passato, il regista si dimentica di coinvolgere lo spettatore, lasciandolo indifferente alla carica emotiva dei personaggi e solo parzialmente divertito dai riferimenti post-moderni di trama e confezione.
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