Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
C’è uno splendido film del 1966 del grande Teshigahara Hiroshi (regista di La donna di sabbia, per intenderci) che si chiama The Face of Another. Le problematiche identitarie (l’amore, la persona come nome e volto determinati, le relazioni interpersonali, l’esistenza nel mondo e ”tra la gente”, l’impossibilità al cambiamento e nel contempo l’inevitabilità all’anonimato) sono le stesse di Time: ma se là si sfioravano i massimi sistemi con un’avanguardia simbolica e stilistica ai confini dello spaventoso, Kim Ki-duk opta per la spiegazione della parola e dell’immagine. E casca, soprattutto quando vuole recuperare una surrealtà (la donna che cammina tra la folla con la maschera) che oggi è soltanto simbolismo da quattro soldi. La banalità orrifica del quotidiano, tanto cara al regista, lambisce stavolta le dinamiche coreane classiche tra uomo e donna, ma il cinema di Hong Sangsoo, a cui Time apparentemente vorrebbe aspirare (vedere le scene nei locali e a tavola, segni primari della poetica dell’autore di Virgin Stripped Bare by Her Bachelors), è davvero lontano. E anche la sequenza più bella, dell’addio tra il protagonista e la ragazza del poligono di tiro, sembra presa pari pari dal finale di One Fine Spring Day di Hur Jin-ho. Mentre il finale di Old Boy, con la sua disperazione muta dell’ignoranza, possiede da solo un’ampiezza nichilista che Time non riesce mai a mettere a fuoco. Fa male ammetterlo, ma Kim pare non aver più niente da dire. Il doppiaggio, comunque, aiuta alla bruttezza del tutto.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta