Regia di Pupi Avati vedi scheda film
Questo è l’Avati che preferisco, quello che scava nei luoghi e s’impasta degli sguardi della gente, che coglie la poesia in un frusciare di foglia, che scrive fiabe con le ombre allo strepitio del fuoco, che narra di un’epoca passata sullo sventagliare di una gonna.
Al secondo giorno di programmazione Avati ricevette un telegramma dal produttore che lo informava che il primo giorno il film aveva incassato 35.000 lire, il secondo il cinema era rimasto chiuso per mancanza di spettatori.
Visto il film non è difficile capire il perché, la mistura di silenzi e nostalgia, di fiaba e poesia espressa soprattutto con immagini e non delegate alla verbosità dei testi che delle immagini fanno i loro leggii, non è sicuramente gradita, tutt’ora e forse oggi ancor di più, ad una estetica cinematografica popolare, di vasto consenso. E’ più un gioiello introspettivo, che una volta visto cresce dentro fino a riempire l’anima del suo bagliore. Prerogativa principe delle opere d’arte.
Sospeso tra Tarkowsky e Malik (non scherzo) si narra la vicenda di una famiglia composta dal padre Giove e i quattro figli maschi, rimasti soli dopo la morte (fuga?) della madre, ficcati con il loro casolare in una laguna, all’inizio dell’800 dalla quale non c’è modo di uscire se non per via d’acqua. Bloccati in questo altroquando privato, i quattro fratelli conducono un’esistenza fatta di giochi, sogni e armonia fino a quando il casuale arrivo di una fanciulla non provoca in loro i primi turbamenti amorosi. Poesia di fruscii e lampi di luce, di gracidare di rane e desideri nutriti dal sogno, di parole al cuculo che non risponde mai. I quattro ragazzi, adulti ormai, non hanno mai visto una donna, spiano le carrozze che da lontano vanno alla casa del barone cariche di femmine ma sono solo presenze lontane, mitiche. Il casolare è antro di leggende, di credenze cresciute con le nenie del vento tra le fessure, esseri misteriosi che vivono dentro i muri, numi tutelari di un focolare arcaico e anomalo, destinato a finire. Sul nucleo famigliare aleggia una strana sensazione di morte, anch’essa mitizzata ma non temuta, accettata nella sua tragica evidenza con il sorriso e la spensieratezza di chi vive il rapporto con la natura in pieno, essendone figlio putativo e sa nel profondo che gli esseri viventi prima o poi muoiono ma restano lì, come dice Simone, non si allontano da dove sono vissuti e questo è un bene. Il piatto paesaggio lacustre squassato di tanto in tanto da vegetazione scossa dal vento, viene filmato con grande garbo, così come la storia d’amore pudica e innocente, tra la ragazza e i componenti della famiglia culmina con un matrimonio che mette d’accordo tutti, appiana le gelosie e le ripicche sorte per aver l’attenzione della fanciulla e termina con la morte, appunto, in un quadro che tra le strelle del fosso, ricorda l’ultima cena. Il film è un racconto in realtà di un acchiappatopi che di fronte al fuoco racconta la storia, aggiungendo onirismo ad una vicenda già di per sé sospesa in un limbo surreale e senza tempo. Film a prima vista semplice, in realtà è stratificato nei segni, nei gesti, nella recitazione un po’ sopra le righe che molto dicono, senza dire, dell’universo esclusivo che i personaggi abitano in piena armonia. La necessità di una completezza che i quattro fratelli vivono come disagio che non riescono ad intellettualizzare, si materializza nella comparsa della ragazza, Olimpia (Roberta Paladini) e l’assurdo sposalizio a sei si percepisce assolutamente plausibile visto che ella trova nei cinque uomini le caratteristiche che riunite formano l’uomo perfetto. La prestanza di Marione (Gianni Cavina), la cultura e sensibilità di Simone (Lino Capolicchio), l’utilità di Marzio (Giulio Pizziraghi), la parte femminile di Bracco (Carlo delle Piane), la saggezza della maturità di Giove (Adolfo Belletti, il padre dei quattro ragazzi). Profondamente umano e rarefatto, “Le strelle nel fosso” è ingiustamente dimenticato, l’Avati agreste e con l’occhio al passato è quello che ha dato sempre i maggiori risultati in termini di sensibilità e fascinazione, il complice scivolare tra la vegetazione, le nenie recitate a fior di labbra e l’uso sovente del dialetto, trasportano in una dimensione altra che non sia il cinema, riportano a qualcosa di atavico che si è lasciato indietro o troppo dentro: l’innocenza, l’ingenuità, la fede ormai stritolati dal dover vivere quotidiano. Così il languore tracima in un’ansa di pace e tutto si compie, finalmente la morte arriva ma non fa così male.
I tempi di narrazione insolitamente lunghi lasciano il tempo allo spettatore di entrare empaticamente in contatto con i personaggi, meravigliosi e imperfetti, frutto di una sceneggiatura scritta giorno per giorno in modo che sia d’obbligo “sentire” il film piuttosto che ricondurlo ad una plausibilità narrativa e forse come non succede più, la rottura dell’incanto è necessaria come la fine stessa di Giove e dei suoi figli poiché le cose belle per essere apprezzate devono finire. Come la vita. Come un film.
Giovedì 21 maggio 2009 la visione del film Le strelle nel fosso, ha avuto come ospite in sala Giulio Pizziraghi, attore e regista teatrale nonché attore feticcio dell’Avati anni 70 e che proprio nei giorni precedenti l’incontro ha ultimato le scene dell’ultimo film del Maestro, in questo momento in post produzione. Persona squisita di profonda umanità e gentilezza, ha tutta l’umana umiltà dei grandi che non devono dimostrare nulla se non sé stessi. Una sorpresa.
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