Regia di Andrzej Zulawski vedi scheda film
“L’uragano, sacra e suprema poesia.
L’immenso muoversi delle forze ti scuote, l’opera germoglia, la morte brontola, città eletta.
Ammassi di stridori al cuore di una tromba sorda.” [Arthur Rimbaud]
Vertiginoso e “classico” al contempo, saltellante e quasi combattuto fra la forza scenografica del melodramma e lo spasmo sofferente del thriller sentimentale, L’important c’est d’aimer è la terza opera di Andrzej Zulawski, dopo due film realizzati in Polonia, La terza parte della notte [1971] e Il diavolo [1972]. L’apertura al cinema internazionale è per il grande regista di Possession [1981, venuto subito dopo questo] l’occasione per dare dimostrazione del suo piglio registico, ben distinguibile anche nell’opera successiva. La regia di Zulawski è umorale, materica, a un passo dal sublime e dall'osceno. Sono tante, infatti, le emozioni che riesce a procurare allo spettatore, e ognuna smentisce quella precedente e quella successiva, senza ordine logico di sorta, come un motore anarchico che coglie gli sconvolgimenti ingenui di un microcosmo alla deriva. È la passione, quella che interessa a Zulawski, un amor fou che, a differenza dalle conclusioni contemporanee di illustri colleghi francesi, rende folle anche il gesto filmico, in altri casi cinematografici sempre più distante e classicamente coinvolto, raramente sconvolto come in questo caso. Con una macchina da presa a mano che vibra al ritmo di un respiro fuoricampo, interessato a conoscere nel profondo le crisi interiori dei suoi personaggi bizzarri (stupendo quello di Klaus Kinski, quasi una parodia omosessuale, in certi momenti, di un burbero Marlon Brando), Zulawski sembra sempre assaltare i suoi personaggi, tramite zoomate secche ma non troppo veloci o movimenti sovraccarichi ed eccessivi che plasmano le figure e gli ambienti. La sequenza iniziale è in qualche modo emblematica di come le figure umane si inseriscono all’interno dell’inquadratura zulawskiana: Romy Schneider, attrice quasi fallita costretta a girare porno per guadagnare, percorre le due stanze del set del film che sta realizzando, dando misura dell’ambiente in cui si trova, raggiungendo il corpo sanguinante di un uomo. In L’important c’est d’aimer Zulawski adotta due metodi diversi per sottolineare l’emozione palpitante che muove i personaggi, e anche l’immensa differenza fra l’iconografia del melodramma classico e l’ipercinesi che ripercorre fedelmente le passioni: alterna sequenze in cui è l’inquadratura quasi ferma a dare la definizione dei luoghi in cui ci si trova, il più delle volte ariosi interni di vecchie case o della platea di un teatro, a sequenze in cui sono le figure umane, osservate da molto vicino, a costruire un percorso, o addirittura il moto differente, violento, della macchina da presa, che però si arrotola e si incentra sempre sulle figure umane. Sembrerà fuori tema, rispetto all’ambiguo fine ultimo del film, ma questa duplicità dello sguardo zulawskiano dà la misura di quanto sia concreta e corporea la sua mano, la sua attenzione.
In L’important c’est d’aimer Zulawski indaga il confine fra l’alto, il nobile, e il basso, il fallibile. La storia del protagonista, Servais, che scopre tramite l’occhio della sua macchina fotografica la solitudine sottopelle di un’attrice che dimostra meno anni di quelli che ha (o almeno lei crede così), diventa l’occasione per domandarsi, eversivamente, se l’amore è dopotutto un sentimento che nasca dallo stimolo impulsivo innato nell’uomo, o sia un sentimento che a posteriori riassume, “romanticamente”, il rapporto fra due esseri viventi. Per Zulawski non c’è risposta, ma c’è modo di tradurre questo annoso dubbio in un impianto formale dicotomico che sfrutta il volto noto di Romy Schneider, già principessa Sissi e protagonista de Il lavoro [1962, estratto da Boccaccio ‘70] di Luchino Visconti, per enfatizzare l’aspetto più classico della tortura melodrammatica del sentimento complesso, e per creare ulteriore sbandamento nei criteri osservativi dello spettatore degli anni Settanta (e di oggi).
È per esempio il comportamento degli uomini a condurre su strade differenti e intrecciate il destino contenutistico del film. Dando un’occhiata ai “mariti”, quello di Jacques Dutronc e quello dell’amante di Servais, ci si avvede che essi assumono un comportamento quasi contraddittorio nei confronti del protagonista, vedendo quasi “di buon auspicio” il suo ingresso nella vita intima delle loro donne. Un comportamento che, dando un’occhiata più lungimirante, bene osserverà lo Yehoshua de L’amante, romanzo del 1977, che intravede paradossalmente in un classico tradimento la possibilità per una maggiore stabilità familiare. Nonostante però l’apparente somiglianza, qui l’offerta della propria donna all’uomo-fotografo (all’occhio voyeur?, all’Arte?) rappresenta per entrambi gli uomini un tassello fondamentale per l’autodistruzione.
Il protagonista, Servais, che vorrebbe mantenere maggiore coerenza fra la ragione della responsabilità e le sue azioni concrete, ostacola il percorso autodistruttivo di Jacques (Dutronc, marito della Nadine di Romy Schneider) non concedendosi alla donna. Questa fiducia in se stesso, che è anche l’ultimo scampolo di fiducia nell’integrità dell’uomo, sarà costretta a crollare quando il suo creditore, Mazelli, gli pronuncia parole di sfacciata chiarezza:
“Tu credi che questo non faccia schifo a me? Ma se sono tutti fatti così! Non hai capito com’è fatto l’uomo? Te lo dico io: l’uomo è quello che c’è di più sporco..l’uomo più vero è quello che si siede sul cesso tutte le mattine…e allora non ti rimane altro che guardare quello che più ti disgusta, come se ti guardassi allo specchio, sennò basta che fai come me, pensa qualche altra cosa”.
Questa presa di consapevolezza, che abbassa l’uomo al disgusto e all’immondo, spinge a una crisi del gesto filmico stesso, specie quando, proprio come in L’important c’est d’aimer, esso pone al centro le contraddizioni dell’animo umano. Una presa di coscienza che coincide con il pestaggio di Servais, e nel degrado grottesco dell’anziana donna in viola e del pazzo che ride urlando (si clicchi qui per vedere la scena).
Ha dunque senso l’elevazione a melodramma? Ha senso nobilitare il sentimento amoroso? Lo stesso Jacques, quando dichiara a Nadine di amarla, si compiace quando lei comincia a urlare, dicendo che ti amo sono parole che non hanno senso. È qui che Zulawski riesce, metatestualmente, a documentare nervosamente una crisi prettamente cinematografica, figurativa. Non è forse più coerente una mdp che ansiogena e ansiosa tremi? Non ha più senso, forse, uno sguardo pornografico?
Eppure, con il personaggio di Nadine, e con lo straziante finale, Zulawski rilancia la scommessa a favore del sentimento amoroso, lasciando nello spettatore l’ansia evidente della confusione e del disorientamento. La danza caotica di tutto il film, che controbatte ferocemente ai momenti più romantici, viene in qualche modo contrastata da una forza illusoria che concede non tanto la felicità, quanto l’umanità, a costo della violenza, del sangue, dello schifo.
Nonostante la parlantina eccessiva a volte assunta dai personaggi, il citazionismo evitabile di certi echi evocati da dei poster sulle pareti, e un confronto un po’ posticcio fra l’arte cinematografica e l’arte teatrale, L’important c’est d’aimer rappresenta un punto di partenza per un cinema complesso e sfaccettato, che si muove fra corpi sofferenti e desideranti in maniera crudele ma mai cinica, sinceramente disagiante ma con una sincerità che spezza il cuore.
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