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Pixote, la legge del più debole

Regia di Hector Babenco vedi scheda film

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La recensione su Pixote, la legge del più debole

di Peppe Comune
8 stelle

Pixote (Fernando Ramos da Silva) è uno dei tanti ragazzini che vive nel più popoloso riformatorio di San Paolo del Brasile. Un luogo di perdizione per questi ragazzi di strada, che imparano presto la primordiale legge della sopravvivenza. Praticano rapporti sessuali promiscui e sniffano colla per eccitare i sensi. Le guardie sono tutt'altro che tutori della legge e men che meno somigliano a degli educatori per ragazzi "difficili". Anzi, approfittando dell’impunità derivante dalla minore età dei ragazzi, li usano per fargli commettere atti delinquenziali di vario tipo. Ma un giorno, un ragazzo viene trovato morto dopo essere stato violentemente malmenato dalle guardie. Per paura di fare la stessa fine, Pixote si accoda a Lalica (Jorge Julião), Chiko (Edilson Lino) e Dito (Gilberto Moura) per fuggire dal riformatorio e conoscere almeno la libertà della strada.

 

Pixote, la legge del più debole (1980) -

"Pixote" - Scena

 

Con “Pixote”, Hector Babenco costruisce una storia di finzione intorno a dinamiche sociali tristemente vere. A raccontarcelo e lo stesso autore che prima dell'inizio del film ci descrive la condizione di estrema povertà in cui vivono tantissimi ragazzi brasiliani nella città di San Paolo, il cuore economico del Brasile. Al cinema è sempre una questione di estrapolare quando c'è di emblematico dal quadro sociale rappresentato dalla finzione cinematografica. Questo vale soprattutto per film quasi dal taglio documentaristico come “Pixote”, che usa il cinema per mettere a disposizione di tutti spaccati di mondo dimenticati.

La macchina da presa circoscrive il male di vivere di questi ragazzi “da riformatorio”, analizzandolo in tutta la sua spoglia crudeltà e in tutto il suo necessario verificarsi. Il sospetto di un certo compiacimento nel mostrare la verità della violenza viene pure, ma è preferibile annotare il coraggio che ci vuole nel farlo dando mostra di non voler arretrare lo sguardo e senza omettere il necessario. Come pure è più importante tracciare la strada che ci viene offerta dal film per riflettere sulle condizioni di miseria in cui versano questi ragazzi maledetti piuttosto che cavillare sulla presunta estetizzazione della violenza.

Hector Babenco ci mette certamene del suo in fatto di apporto poetico alla narrazione, ma a prevalere sembra essere l'adesione quasi assoluta a ciò che la macchina da presa si limita a registrare. E ciò che registra è una storia di "ordinaria" marginalità sociale che a 40 anni di distanza ha ancora da dirci qualche cosa. Perché certe storie si ripetono sempre uguali in ogni tempo e luogo, a cambiare può essere il modo in cui la disgregazione sociale interviene ad indirizzare decisamente il corso esistenziale di chi ne è succube. A parziale riprova di quanto detto ci sarebbe il fatto che “Pixote” sembra la versione solo più moderna de “I figli della violenza” di Luis Bunuel. Lì si era tra gli “olvidados” messicani, qui tra i “meninhos de rua” brasiliani.  Ad accomunarli e lo sguardo orientato dalla vita dei bassifondi, il quale, in questo caso come nell’altro, si limita a ragionare sui perché e i per come dei ragazzi di strada fanno dell’istinto ferino un evidente attributo caratteriale. Ragazzi che nascono con le stimmate della colpa perché figli illegittimi di un mondo che non li sa ascoltare, una colpa che non può mai andare via perché hanno imparato solo a capire che le cose si ottengono prima usando la forza. Perché la prepotenza che gli si è cucita addosso li conduce a rispondere con la violenza alla violenza, con i soprusi ai soprusi, seguendo il più istintivo rapporto di causa effetto. Quello che ad ogni azione inculcata sin dalla nascita ne fa seguire un'altra di identica natura.

Il film è quasi diviso in due parti simmetriche, e ad una prima parte ambientata in carcere con l’obiettivo fisso sulla cruda esposizione della violenza, ne segue una seconda che ha nella strada il teatro privilegiato di una devianza sociale a cui è impossibile sfuggire. Il cuore della storia e naturalmente il piccolo Pixote, un "figlio" della violenza che si abitua presto ad avere familiarità con cose e persone che un ragazzino della sua età non dovrebbe mai avere a che fare. Ogni sua azione è la dimostrazione di quanto la conoscenza di esperienze diverse da quelle cui si abituano gli occhi potrebbe servire a fornire alternative a qualsiasi percorso esistenziale. Se si vive in un luogo dove, nella migliore delle ipotesi, si è considerato un peso sociale buono solo per essere usato all’occorrenza come caprio espiatorio, allora è normale che la strada della violenza diventa quella che si può imboccare più facilmente e più in fretta. Molto emblematica è una sequenza che arriva a ridosso dei titoli di coda. Pixote si è appena macchiato di un crimine atroce e lo si vede attaccato al seno di una prostituta. Un gesto semplice ed innocente che allo stesso tempo può indicare, sia la precoce attività sessuale di questo ragazzino di strada, sia l'urgenza sopraggiunta all'improvviso di recuperare un po' di quella tenerezza bambina che non ha mai potuto conoscere. Pixote ha poco più di dieci anni, ha già rubato, sniffato colla, smerciato refurtiva, venduto droga, impugnato una pistola, sparato e pugnalato. Ma i suoi occhi esprimono solo la paura di agire meno in fretta di chi gli sta di fronte. Film da recuperare.

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